Treni

I treni si fermano nelle stazioni
perché qualcuno vi salga e vada
dove deve andare, o dove vuole.

I treni ripartono perché qualcuno

resti a guardarli andare, perché

qualcuno li perda per un pelo.

E spesso partono un minuto prima

del tempo speso a trascinar bagagli

o a liberare gambe prigioniere

di un ristorante in centro. 

Poesia al passo coi tempi

Ci vuole nulla a scrivere una poesia al passo coi tempi.

Ci metto un orario, magari le 14:55, il binario di un treno,

24, il codice di imbarco del biglietto aereo, EZY2341.

Scaduti. Prima di gettarli via, nel secchio della carta.

Ci metto una, in farmacia, col camice bianco e l’anima

da venditrice, o lo scontrino dei farmaci per l’onicomicosi.

Inutile, come i farmaci. Poi rifletto sull’evidenza che

le multinazionali non abbiano interesse a sconfiggere

infezioni fastidiose come l’onicomicosi, che la tipa

della farmacia dovrebbe rifiutarsi di battere.

Scontrini per farmaci inefficaci. Sul fatto che la somma

richiesta, e ci metto pure la somma – € 35.00 –

sia del tutto spropositata, sul fatto che io lo so

e che anche lei, la tipa, lo sa bene. Ma una poesia

scritta di corsa, così, tanto per mettersi al passo

coi tempi, si vergogna di se stessa, e tace.

(31 marzo 2014)

Ma tu lo sai cos’è un gatto?

Ma tu lo sai cos’è un gatto?

Lo sai com’è fatto?
Ci hai mai giocato, lo hai rincorso, afferrato?
E ci hai parlato, lo hai accarezzato, magari contropelo
hai fissato i suoi occhi di cielo, col sole, col buio, col gelo
ti ha messo paura? E hai mai sentito i suoi artigli
nella pelle, e come ronfava d’amore, vero, quando
tu esattamente facevi quel che lui voleva?
Perché altrimenti non lo saprai disegnare, nemmeno
se io te lo spiego – un cerchio grande di sotto, e sopra
un cerchietto, due piccole orecchie appuntite, poi gli occhi
il nasino, e i baffi la coda le zampe – sembra tanto facile
ma quello che ne verrà fuori, per quanto tu faccia
per quanto tu provi, non sarà il tuo gatto.

Si scrive di quel che si perde

Ripropongo questa poesia scritta nel 2004. La foto in bianco e nero ritrae mio padre e mio fratello Leonardo ed è stata scattata tanti anni fa da Giulio Gentile, una sera che i due si imbarcavano per andare a pesca. La banchina era molto alta sul mare a causa del bradisismo, e imbarcarsi richiedeva buone capacità acrobatiche. Mio padre aveva superato i settant’anni, all’epoca, e avrebbe smesso di fare il mestiere dopo poco tempo…

Largo del Rosso

Si scrive di quel che si perde
di quel che non si è mai avuto
– due braccia forti e un tango –
di ciò che non si è pescato

di maglie da cucire sotto il sole
e della rete di una vita intera, bianca
tinta di ruggine. Si scrive delle squame
del sale che si asciuga sui calzoni
degli stivali in gomma nella melma
e delle notti cupe sopra il mare

quando si aspetta l’alba. Quando si va
per porti e per mercati, dentro la nebbia.

(16 marzo 2004)

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Ma-à

È quasi l’alba. Vorrei non dover mai andare a letto. Si sta bene di notte, si sta da soli. Si sente il vento che sbatte contro le tapparelle, il tu-tu della cornetta staccata del telefono per evitare che al mattino suoni la sveglia. L’avevo attivata una sera, pensando che sarebbe partita soltanto il mattino seguente. E invece ha continuato a partire ogni mattina, col trillo insistente di chi non gliene può fregar di meno, se tu non riesci nemmeno ad aprirli, gli occhi, figuriamoci ad alzarti di botto. E parte tutti i giorni, compreso il sabato e la domenica, e non riesco più a disattivarla se non staccando la fottutissima cornetta! 

Staccare. È l’unica strategia che funzioni, pare …

Credo di non aver mai superato il dolore per la separazione forzata da mia madre. Altrimenti, non si spiegherebbe com’è che non riesco a staccarmi dalle persone, nemmeno se si tratta di estranei come questo Scalpellini, con cui in fondo ho poco o nulla da spartire. E’ un tratto patologico della mia personalità, credo. Le persone normali si liberano facilmente di ogni impiccio relazionale; io mi sento dilaniata da un dolore indicibile ogni volta che qualcuno mi sbatte in faccia un rifiuto.

A volte cerco di acchiappare il ricordo, di me abbandonata in una culla di metallo in uno stanzone gremito di culle occupate da bambini piangenti. Ma sarebbe più giusto dire che cerco di ricostruire la scena che ho ‘visto’ tante volte, quella che ho immaginato ascoltando i racconti di mia madre …

Perché sono stata strappata alle sue braccia? Devo essermelo chiesto, tra un singhiozzo e l’altro. Dov’è il calore animale del suo corpo, dov’è il suo capezzolo? Dovevo essere abituata ad attaccarmici ogni volta che avevo sete, e freddo, e sonno … e paura … Dov’è casa mia? Il mio seggiolone, i miei fratelli … ‘Te-éta’ … Era Natale, eravamo tutti intorno alla tavola, io nel seggiolone mangiucchiavo una ‘castagna del prete’, così diceva mia madre. Perché adesso sono qui? Devo essermelo chiesto, chissà, o devo averlo pensato. Devo aver provato a portare una mano alla bocca e … Perché non riesco più a muovermi?

Maammaa! Ammesso che si possa riuscire a pensare, a soli tredici mesi e col terrore addosso. Chi non capisce non pensa, un bambino a quell’età non capisce: piange e basta.

Allora immagino che piango. E’ stato per il troppo piangere che mi sono addormentata. Ecco, adesso sono in quella culla di ferro e metto una pausa alla paura. Quando mi sveglio riprendo a piangere ma non mi esce più la voce. Intorno a me sento solo lamenti, urla disperate e voci rauche e gementi.

Ancora qua, sto?? Cos’è, questo grande incubo pieno di bambini soli? Un bambino deve stare con la sua mamma … Dov’è mia madre? Mamma … Mamma! Maa!!

Passa chissà quanto tempo … chissà se ho smesso mai di piangere e di chiamarti. Quando sei entrata in quello stanzone – quando finalmente ti hanno permesso di entrare nel reparto in cui venivano ricoverati a forza i bambini ammalati – tu non riuscivi a distinguermi tra tutti quei piccoli corpi artigliati dalla paralisi. Ero una bambola flaccida, tra tutte quelle creature aggredite da un invisibile, microscopico mostro.

Prima che mi prendesse, io avrei potuto tenderti le braccia e avvinghiarti; avrei potuto scavalcare la sponda di quella culla, e sgambettare tra tutti quei corpi inerti, per raggiungerti … Ma ora non potevo che chiamare ‘Ma-a …’, tra un singulto e l’altro, e ogni respiro era già un’impresa.

Non avrei potuto arrivare in fondo a quella lunghissima parola: Po-lio-mie-li-te.

L’ultima grande epidemia di poliomielite in Italia, e tutti quei bambini tra le ultime vittime, tante. Trentaquattromila bambini. Migliaia di piccole vite segnate. La mia, tra quelle vite. Sono qui, mamma… mi vedi ?? “Màa … “

Tu avevi un camicione verde, una cuffia sui capelli e una mascherina a coprire il volto, ma io ti ho riconosciuta. Ho singhiozzato quel “Mà-a …” arrochito e sorpreso, e devo averci messo un po’ di rimprovero in quel richiamo, perché tu mi raccontavi di aver affrettato il passo e di esserti diretta verso di me, senza più alcun dubbio. Mi hai tirata su di peso dalla culla e mi hai stretta al petto. Poi ti sei accovacciata sul pavimento, hai tirato fuori un seno gonfio e dolente, che dicevi ingorgato di latte non munto, e mi hai permesso di svuotarti la mammella. 

Io ti divoro, mamma! Ti succhio anche l’anima. Non lasciarmi mai più, non lasciarmi! Come hai potuto permettere che mi portassero via, come hai potuto!? E succhio avida, mentre tu versi a fiotti nella mia bocca tutto il latte di cui mi avevi privata.

Dovevi nascondermi in qualche angolo buio, dovevi sbattere fuori di casa il dottore che ha disposto il ricovero: perché non l’hai fatto, perché hai lasciato che mi prendessero, brutta stronza!? Tu piangi e mi tieni stretta tra le tue braccia, io mugolo mentre ti strizzo il petto. Poi cominci a dondolarmi sussurrando una nenia antica, la stessa che canterai pure a mio figlio, tanti anni dopo. Tu mi canti la tua ninna nanna, mamma, quella che parla di un lupo che mangiò la pecora e di barche che tornano in porto piene di pesci d’argento; e io mi lascio cullare dalla tua voce lamentosa, io mi addormento.

 Mia madre con me in braccio, nel giardino dell'ospedale in cui venivo curata, dopo la polio.







Mamma con me in braccio, credo nel giardino dell’ospedale dov’ero ricoverata, dopo la polio.

“Eh sì! La vita è bella: bisogna ridere a tutta bocca solo per il fatto di essere nati.”: non faccio che ripetermelo.

Solo che ogni tanto, a sorpresa, arriva una randellata, e allora è comprensibile che il sorriso si smorzi.

Qui avevo appena affrontato il primo “lutto” della mia vita: avevo provato l’angoscia di una separazione, avevo già pianto tutte le mie lacrime (ma non sapevo che la fonte delle mie lacrime era e sarebbe rimasta inesauribile) fino a diventare afona. Poi, per fortuna, avevo visto riapparire mia madre, il cosiddetto “oggetto d’amore”, e m’ero un poco tranquillizzata.

Chissà a che pensavo. M’ero pigliata una paura terribile!!

Se fossi quella di adesso mi direi: “Vabbuó, il peggio è passato …”

Secondo me ero già quella di adesso.


 

Ho perso un verso

L’hai mica trovato
quel verso che ho perso
che ieri bruciava
e accendeva la notte?

Diceva con quattro parole
di amore di vita di sesso
diceva di tutto

Lo avevo pescato per caso
tra cosce svagate
e flussi di sogni interrotti

Non era brutto

Non era intorcinato

Era perfetto

Era il verso da tanto cercato

L’ho tenuto a mente un istante
ho pensato restasse lì per sempre
ho sbagliato

L’hai mica trovato?

Nonostante il Wrestling

– Pronto? Sìì … sì… Ornelaaa!! … Da Milano… Un signore vuole parlare te. – Poi Nadia mi passa la cornetta sorridendo maliziosamente, come al solito.

– Pronto, parlo con la signora Ornella?

– Sì.

– Chiamo da Milano, sono Claudio.

–  Sì?

– E’ per un’indagine di mercato commissionata dall’Eurisko … posso rubarle qualche minuto?

 (Ha una voce giovane. Questo dev’essere l’unico modo che ha per guadagnare qualcosa …)

– D’accordo.

– Questo è il numero della sua abitazione?

– Sì.

(A che serve dirgli che ha composto il numero di mia madre – ottantasei anni, semicieca e semiparalitica – che sono qui a quest’ora di sera perché lei è caduta procurandosi due brutti ematomi alla fronte ed al naso, che ha il volto tumefatto e che ho da poco finito di medicarla?)

– Questa intervista andrebbe fatta ad un bambino, ma posso farla anche a lei, se nella sua famiglia ci sono bambini …

(La mia nipotina è appena andata via piagnucolando, ancora sconvolta per lo spavento. La nonna le ha ripetuto per decine di volte che è stata colpa sua se è caduta. In effetti, se Giusi non avesse preso a calci la porta per farsi aprire, mia madre non avrebbe cercato di alzarsi da sola dal divano, mentre Nadia era in bagno…Ma, se fosse stata in sé, mia madre non ci avrebbe neanche provato, a fare da sola, e avrebbe dato a Nadia il tempo di andare ad aprire. 

Va sempre peggio …)

– Nella sua famiglia ci sono bambini?

– Un ragazzo di quattordici anni.

– Quindi un bambino…

– Un ragazzo.

– Un ragazzino, quindi un bambino.

 (Vuole un bambino? … che bambino sia!)

– D’accordo.

– Potrebbe dirmi quanto tempo passa suo figlio davanti alla televisione?

-Tre ore al giorno, al massimo.

– Potrebbe dirmi in quali fasce orarie?

– Di solito nel primo pomeriggio, poi inizia a studiare.

– Quindi dalle …14,30 … dalle 14,00 alle 16,00?

– Sì, più o meno…e poi un’oretta, la sera.

– Quindi … dalle 21 … 21,30 … alle 22.30?

(Mi pare un’ora giusta per far andare a letto mio figlio …)

– Sì.

– Potrebbe dirmi quali trasmissioni guarda di solito?

– Io? Non guardo mai la televisione.

– Ehm … non lei, signora Ornella … suo figlio.

(Non ne ho la più pallida idea. Ma devo pur rispondere qualcosa…)

– Gli piacciono i canali che trasmettono musica…

– MTV?

– Sì … e anche le partite di calcio, e i comici … Vede “SuperCiro”, “Mai dire goal”…Tutte le trasmissioni più sceme, insomma.

(Gli incontri di Wrestling non li voglio neppure nominare, per carità di Dio!)

– Eheheh … capito. … Quindi … guarda Italia 1?

– “Super Ciro” la trasmette Italia 1?

– Sì.

– Allora sì.

– Quindi ieri sera … l’ha guardata?

(Ha la voce affannata, incespica nelle parole. Povero amore, chissà quante telefonate come questa ha dovuto fare, chissà quante cornette in faccia si è beccato …)

– Presumo di sì… Sì.

– Nell’ ultima settimana, mi potrebbe dire quali di questi canali ha guardato?

(No, non potrei. Che cazzo ne so di cosa guarda quel benedetto ragazzo?)

– Rai 3?

(Se dico di no, levano la pubblicità a Rai 3, è sicuro.)

– Vede “Ballarò” … la danno su Rai 3?

– Sì … Quante volte guarda Rai 3 allora? Una volta a settimana?

(Cosa cazzo ne so?!)

– Sì.

– La7?

– Sìììììì! Vede lo sport su La7…

(Così daranno un po’ di pubblicità pure a La7: ne ha bisogno…)

– Allora guarda Biscardi.

– E certo, Biscardi!

– Ancora qualche minuto di pazienza, signora … Ornella! In casa sua esiste un decoder satellitare?

– Sì, ma … non si affanni tanto, faccia con calma.

– Ho un tempo calcolato per ogni intervista, è tutto controllato. Adesso le devo elencare tutti i canali satellitari… lei deve solo rispondere sì quando sente un canale che suo figlio vede di solito …

– Ma … Sono più di cento, i canali del satellite! Mio figlio vede solo Rai 3, Italia 1, MTV e La7.

– E Canale 5?

– Noooo!!

(Magari si limitasse a rovinarsi soltanto con Italia 1, quel disgraziato! Invece sono i canali più demenziali quelli che guarda! Canale 5 incluso!)

– Rai1 … allora no. … Rai2 … no.  … Cartoon Network?

– No, ha 14 anni!

– Glieli devo elencare tutti signora … è tutto controllato. … Altrimenti …

– D’accordo.

(Benedetto ragazzo!)

– Lei ha un abbonamento Sky?

– Sì.

– Quale pacchetto ha scelto?

– Cinema, sport … Mio figlio mi ha di fatto obbligata ad aggiungere i canali che trasmettono partite di calcio …

(Cristo Santo, che fine hanno fatto tutte le fiabe che gli ho letto quando era bambino? Le ripeteva a memoria, guai a saltare una sola virgola, a cambiare una parola …)

– Quello da 55 euro?

(Panico. Pago 55 euro al mese per non guardare mai la televisione?!)

– Sì.

– Le elenco i canali, signora … Lei deve solo dire sì quando sente un canale che suo figlio guarda di solito.

– Quanti anni ha lei, Claudio?

– Ventiquattro… sono uno studente, faccio questo lavoro per pagarmi gli studi. …  Rete 4 … CinemaSky … National Geographic … Leonardo…

– Sono più di cento!

– Devo proprio signora … abbiamo quasi finito.  … Discovery Channel …

– Dica a quelli dell’Eurisko di fare inserire pubblicità intelligenti nelle trasmissioni che vede mio figlio, per favore.

– Eheheh… Alice … GamberoRosso … Nuvolari…

– A che ora finisce di lavorare?

– History Channel …Alle 21,30 … tra un po’… Lo faccio solo per poco tempo, questo lavoro, non si preoccupi.

(Non sono affatto preoccupata. Mia madre perde colpi, io perdo colpi con lei, ma forse tu puoi ancora cavartela. Forse anche mio figlio se la caverà, nonostante il Wrestling.)

– Lo spero per te.

– L’intervista è finita, signora …Ornella. La ringrazio per la pazienza.

– L’ho fatto solo per aiutarti.

– Grazie, e buonasera …

– Ciao, Claudio…

(Buona fortuna, ragazzo …)

(2004)

È Pasca e ì stongo ccà

È Pasca e ì stongo ccà

comm’a na pastiera tropp’arœce

ca te fa amara ‘a vaocca

nu casatiello scriscetato

nu panettone ‘i zeucchero

nu poc’ ammazzarreuto

e pure miez’ abbruciato.

È Pasca e ì stongo ccà

comm’a n’uov’ ‘i ciucculata

c’ ‘u róumpe, e nun ce truove

nient’ ‘a róinto.

Stongo cuntenta comm’ a nu frungióillo

chiuso ‘nt’a ‘na cajaola

E comm’a jóiss’ ì canto.

(#dialettoputeolano, 2004)

Traduz. È Pasqua ed io sono qui

come una pastiera troppo dolce

che ti fa amara la bocca

un casatiello afflosciato

un panettone di zucchero

cotto, mal lievitato

e pure mezzo bruciato

È Pasqua ed io sono qui

come un uovo di cioccolata

che tu rompi, e non ci trovi

niente dentro

Sono contenta come un fringuello

chiuso in gabbia

e come lui io canto

Nonnanonna marenara

Nonnanonna marenara (dialetto puteolano) Ruorme ...

Stong’armànnö ‘na ræzza rë vasë
attuornö a chëst’uocchië
ca sèmpë cchiù trόichënö, â nottë,
‘afferrà’ suonnö. Róint’ ‘u schëurö

së movë ‘acucèlla c’ ’a manö
‘i pacienza jinchëuta …

E ‘nzë sænte ‘nu suonö, ’nt’ ‘u schëurö,
si ‘Ammorë arrëpèzza
ddëuj’ uocchië scusëutë.

(Dialetto puteolano)


Traduz. Ninna nanna marinara

Dormi …
Sto costruendo una rete di baci
intorno a questi occhi
che sempre più tardano, di notte
a prender sonno. Nel buio

si muove l’agucella
con mano paziente riempita …

E non si sente alcun suono, nel buio
se l’Amore rammenda
due occhi scuciti.

Ma tu lo sai cos’è un gatto?

Ma tu lo sai cos’è un gatto? Lo sai com’è fatto?
Ci hai mai giocato, lo hai rincorso, afferrato?
E ci hai parlato, lo hai accarezzato, magari contropelo
hai fissato i suoi occhi di cielo, col sole, col buio, col gelo
ti ha messo paura? E hai mai sentito i suoi artigli
nella pelle, e come ronfava d’amore, vero, quando
tu esattamente facevi quel che lui voleva?
Perché altrimenti non lo saprai disegnare, nemmeno
se io te lo spiego – un cerchio grande di sotto, e sopra
un cerchietto, due piccole orecchie appuntite, poi gli occhi
il nasino, e i baffi la coda le zampe – sembra tanto facile
ma quello che ne verrà fuori, per quanto tu faccia
per quanto tu provi, non sarà il tuo gatto.

1. Le sorelle Sarachèlle

L’unica nonna che abbia conosciuto è stata la mia nonna paterna, Teresina detta Sarachélla: quando sono nata gli altri tre erano già morti da un pezzo. E’ che io sono stata “figlia di vecchiaia”, la nonna era nata nel 1882 e quando è morta, nel 1972, stava per compiere 90 anni mentre io non ne avevo ancora compiuti 14.

Largo del Rosso

1. La nonna Teresina, ovvero la Sarachèlla Befana, e le sue sorelle.

Fu perché non poteva giocare ad acchiapparello né a singo, e anche perché saltare alla corda era un’impresa per lei impossibile, che Maruzzella imparò a guardarsi attorno e ad andare a caccia di storie da ascoltare.

Quand’era molto piccola gliele raccontavano la vecchissima nonna paterna, Teresina, e le di lei altrettanto vecchissime sorelle, zi’ Assunta e zi’ Filumena.

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5. La Befana esiste: ne ho le prove.

A fine pranzo lui depone sul tavolo l’oggetto che vedete in foto.
– Oh, che cos’è??
– Come “che cos’è?”?! Sono tre giorni che ti stai sbattendo cu’ ‘sta Befana, e mo fai finta di non riconoscere la calza?!
– No, ma … non mi dire che …
– Niente, non si trovava una calza manco a pagarla a peso d’oro. E sai dove l’ho trovata?
– No, lo ignoro. Appesa al caminetto?
– Ma pecché: nuie tenimmo ‘u caminetto?
– Ah, già … Allora appesa alla testiera del letto?
– Ma nooo! Sono andato a quel baretto ad Arco Felice dove tu ogni tanto ami prendere il caffè. Ed è lì che l’ho trovata …
– No!! Tu credi di averla trovata!!
– Ovvero?
– Consentimi di rivelarti che lì ti ha condotto la Befana!
– Neèh, ma tu fusse scema?!CALZA BEFANA

Io e la Befana

  1. COMUNICAZIONE ASSENZA

La Befana s’è ammalata
ha la nausea e la diarrea:
vuol guarire -non ne hai idea!
ma è un tantino rassegnata.
Si dimette qui dal compito
rinunciando ad ogni incarico:
visto che c’ha pure il vomito
resta a letto con rammarico.

  1. CERTIFICATO MEDICO

M.me Lora Befana ha le ossa rotte
l’utero molle e le braccia decotte
ha una sindrome dolorosa da emorroidi
l’emicrania, un ascesso e le adenoidi.
Ha una nausea che a tratti si presenta.
Le prescrivo pertanto giorni trenta
di riposo completo e di abluzioni.
In fede,

dott. Salvo Complicazioni

 

  1. RICHIESTA DI SUPPLENZA

– Pronto, parlo con la Befana aspirante supplente n.1 della graduatoria BEFANE PRECARIE?

– Ehm… Lei chi è? Si qualifichi!

– Salve, scusi se la importuno, sono la Befana a Tempo Indeterminato iscritta all’ordine delle Befane di Pozzuoli City, codice n.345vx.

– Salve, scusi Lei, ma sa …di questi tempi, la prudenza non è mai troppa. Comunque sì, sono io, mi dica …

– Avrei bisogno di una supplenza per l’intera nottata: lei è libera o già impegnata?

– Ma che ore sono? Mi sono appena svegliata …

– Etciù!! Mi perdoni … sto malata. Sono le ore 18:59 …

– Oh che piacere, allora dev’esser sostituita! Mi creda: non ci speravo più! Sa … a quest’ora sono ancora Libera, liberissima … Nonostante sia la prima in graduatoria ed abbia già molti anni di precariato sulle spalle – sob, snif, chitèstramuòrt, ehm …- scusi, sa, ma sono adirata … Comunque no, nessun’altra Befana Titolare m’ha chiamata.

– Bene, allora le affido l’incarico. La sua tariffa?

– Pagherà un tanto al chilo. Quanti chili?

– Diciamo un sett’etti …

– Eh, ci vuole la calcolatrice! Comunque, guardi, per sett’etti netti resto a casa. Fa freddo, ho la scopa gelata … per sett’etti netti non faccio mica la nottata!

– Suvvia, faccia il piacere, ci metta pure la maggiorazione. Turno di notte, festivo: quanto fa? E il Liquido antigelo, se occorre.

– Occorre. Corro subito a comprarlo. Dov’è che devo venire?

– Ma non mi ha detto quant’è! Etciùù!

– Trattativa privata, vis à vis, richiesto pagamento in contanti, trattamento economico, vengo da Lei e ci accordiamo. Ah, il contagio vale una tripla prestazione: metta la mascherina!

Clic.

(2017)

Sta

Riflettendo su una poesia di Pier Maria Galli …

sta negli anfratti e sull’orlo degli abissi, sta sul crinale, sta nei meandri della mente. sta sui sentieri, lungo le sponde dei torrenti. sta nei dizionari, nei luoghi comuni rivisitati con occhi nuovi. sta ai margini, tra i deformi e gli storpi. sta nei giochi, seri, di chi usa come giocattolo le parole e con quelle si diverte. e sta dove le parole uccidono più delle guerre, sta dove le parole esplodono, dove le parole fanno ponti o li distruggono. sta dove si lanciano sassi in uno stagno, sta nello stagno tra le rane e le ninfee. sta dove la gente muore, dentro la gente che muore, dentro il corpo che ama dentro la mascella che si contrae, tra la gente che fa la pace o che la pace sbrana. sta nei manicomi, nelle scuole, nei teatri. sta persino nelle discoteche e nelle fogne. sta sulle foglie, sta nel glicine abusato. sta sotto cumuli di monnezza, tra le miriadi di mosche e di insetti molesti, sta tra le blatte o i topi che infestano gli scogli, sta tra gli scogli e i ricci di mare, con l’acqua vapore e dentro e sopra e sotto: nella salsedine e nella ruggine. inconoscibile, indefinibile, inafferrabile. sta seduta su una sedia, è la sedia in cammino. sta nel vento, nelle spore che colonizzano i deserti, sta nelle scie chimiche e nei pozzi di petrolio. sta tra i bidoni di scorie adagiati nella quiete dei fondali. sta nei musei, sta raccolta ad ammuffire. sta tra i ragazzi che si baciano all’alba, tra i vecchi che fanno all’amore ad ottant’anni, e passa. sta dove tutto passa e nulla dura, e sta tra le cose che durano, dure a morire. inutile, senza speranza, velenosa. come uno schiaffo ben assestato quand’è ora, come uno sputo, come una bestemmia. necessaria. sta come il pane caldo quando hai fame.

Cani

Toto

Voi umani chiudete porte o le aprite
: avete mani a pollici opponibili, che usate
per separare spazi, a vostro piacimento.

Noi cani abbiamo zampe per correre
per segnalare che una palla è nostra
per indicare scatole, che avare custodiscono
tesori a noi preclusi, chiedendo l’elemosina
di un gesto – la lingua sempre pronta a baciare –
di una carezza, e siamo sempre eternamente
grati
quando del nostro amore vi accorgete

quando del vostro amore                        date segno.

Testamento

Il porto

Quando morirò spargi le mie ceneri

Là dove tutte le navi approdano
Là dove tutte ripartono

Spargi le mie ceneri là

Dove i gabbiani si tuffano a ghermire
Brani di sarde galleggianti
Tra buste di plastica e croste di pane

Quando morirò non resterò con te
Tra quelli che verranno al funerale

Sarò il mazzone preso all’amo che guizza
Nell’aria fumosa del mattino

Sarò quello che ha trovato scampo
Schivando per caso la sua esca
E attende me senza saperlo

Voglio aspettarti là
Dove le eliche fanno mulinelli

Nell’acqua sporca del porto

Treni

I treni si fermano nelle stazioni
perché qualcuno vi salga e vada
dove deve andare, o dove vuole.
I treni ripartono perché qualcuno
resti a guardarli andare, perché
qualcuno li perda per un pelo.

E spesso partono un minuto prima
del tempo speso a trascinar bagagli
o a liberare gambe prigioniere
di un ristorante in centro.

 

Mariella Tafuto – Rothenburg, 2005

 

 

 

 

Zitto!

Zitto, che quelli dormono, zitto! Non si sente più niente. A bordo solo il motore bisbiglia …

Ci ho pensato molto prima di registrarla. È una mia poesia in dialetto puteolano di cui avevo già pubblicato il testo nel mio blog e in una “nota” di Facebook. Si intitola “Zóitto!” ed è una preghiera al mare, scritta in italiano quando ero una ragazzina e poi “tradotta”, molti anni dopo, nella mia lingua materna, che era l’unica lingua parlata in famiglia. Ho usato frasi ed espressioni del gergo dei pescatori di “Rént’ ‘a teorre”, (il quartiere di Pozzuoli chiamato “Dentro la torre”, a cui apparteneva Largo del Rosso), il gergo che usava mio padre quando parlava del suo mestiere con i compagni di pesca. Perché volevo che quelle espressioni, quelle parole, le parole di mio padre, che era soltanto un pescatore analfabeta ma che “sapeva” del mare e della vita più di molte persone “colte” che ho poi incontrato nel corso della mia vita, che quelle parole non andassero perdute. Questo il mio intento nel registrare la mia preghiera. La musica che ho messo sullo sfondo è “Lullaby” (una ninnananna che mi sembrava perfetta) di Leo Sestili, che spero mi perdoni per l’appropriazione e che mi consenta comunque di usare la sua dolcissima musica, che mi ha colpita fin dalla prima volta che l’ho ascoltata.

Francesco Sassetto

Francesco Sassetto, un fiore raccolto nel Giardino dei Poeti, uno da conoscere. Grazie a Cristina Bove.

Precari della scuola

…eccomi su questo treno
carico tristemente di impiegati,
come per scherzo, bianco di stanchezza,
eccomi a sudare il mio stipendio

Pier Paolo Pasolini

Noi siamo quelli che partono di notte, il vagone
sporco del regionale delle sei e venti ci carica
dagli imbuti neri dell’inverno di strade
senza nome, stralunati e lenti, le bocche
livide che stentano a parlare impastate
di sonno e caffè bevuto in fretta.

Noi siamo quelli che si possono cambiare,
i disponibili, i tappabuchi della scuola, quelli
che possono aspettare, che non lasciano
memoria, nomi senza volto e senza storia
a settembre in classe
a giugno fuori dal portone,
pedine d’una cinica scacchiera sgangherata
che vuole il pregio di dirsi istituzione.

Abbiamo dignità ferita e figli e affitti
da pagare, crocifissi da ordinanze e circolari
in perpetuo moto, veniamo sempre dopo
e presto spariremo cancellati nella gabbia
del contratto a scadenza prefissata,
abbiamo il presente, mai il futuro, noi offesi
senza più nemmeno la forza dello sdegno,
senza articolo diciotto o sindacato.

E qualche stracciato manifesto è tutto quel che resta
al muro di un’antica rabbia.

Sonnecchiamo, ritornando, al tempo fiacco
del vagone e parliamo della scuola e della casa,
se ci sarà lavoro l’anno venturo, sapendo già
che non ci rivedremo tutti dentro a questo
treno che dice polvere e stanchezza e rode
ore troppo lente, noi insieme adesso per sola
coincidenza e breve, noi esperti
dell’avvicendamento, professionisti del cambiamento
dove non cambia niente.

*

il giardino dei poeti

“La poesia di Francesco Sassetto è la testimonianza di una strenua resistenza al dilavamento interiore umano reso dall’assunzione abitudinaria di un mondo che s’impone per gelida grettezza, paradosso, ingiustizia. Attraverso la parola, l’autore, dona voce a un campionamento rilevato in campo quotidiano, fatto di lotta per la sopravvivenza. Intimista e colloquiale, il poeta si lascia avvicinare attraverso immagini malinconicamente attive che s’infiltrano nel lettore come dosi omeopatiche di un veleno attivato alla denuncia, comunque propulsore di speranza reattiva. Lo sguardo parte dal sé per posarsi sulla folla di sentimenti che uno a uno ci riguardano tutti e che, attraverso i suoi versi, trovano strada per non essere eternamente riconsegnati a un altrove fatto di coscienza distratta e latente solitudine.” Doris Emilia Bragagnini

“Che Francesco Sassetto fosse una delle voci più forti della poesia civile contemporanea, intesa nel senso migliore del termine, era già emerso con chiarezza dalle precedenti raccolte Ad…

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Gioielli Rubati 49: Idoia Arbillaga – Davide Castiglione – Matteo Rusconi – Alexandra Bastari – Emilia Barbato – Klaus Miser – Mariella Tafuto – Jonathan Varani.

Grazie a Flavio Almerighi, che nel suo blog ha messo il mio Notturno in ottima compagnia. aMargine è un buon posto, sì. E stare tra “Gioielli rubati” è un grande onore.
https://almerighi.wordpress.com/

almerighi

ODE A EROS

Se si trattasse solo del battito,
membranoso e fugace, della carne e delle ossa,
o della rischiosa chimica
che si scatena a causa di incerti referenti
(ricordi, chissà, di un padre o di una madre,
ricordi puerili di un bambino dell’infanzia).
Se tu fossi l’istinto che portai da una grotta,
dono di femmine inquiete in cerca di un marito,
o fossi il residuo della natura che cerca di procreare;
se fossi solo, Amore,
un regalo senza magia che cerca i nostri amplessi
per forgiare futuri,
se solo fossi questo e non lo sciroppo bianco
che si accende nelle mie vene ogni volta che lo guardo.
Anche se solo questo fossi, Eros,
e non le cento api che brulicano nella mia anima
ogni volta che lui mi bacia,
io continuerei nel mondo a percorrere le sue strade
con la speranza cucita nelle pieghe della mia gonna
io continuerei…

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Anna Maria Curci

il giardino dei poeti

AMC_Morlupo2018Opera incerta è il titolo della mia raccolta inedita che raccoglie testi scritti nell’arco di diversi anni, fino a quello in corso, il 2019. Il nome, come già accadde per la prima raccolta da me pubblicata, Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), coincide con un termine usato nell’architettura. Qui si fa riferimento all’opus incertum, di cui Vitruvio scrisse: «Le pietre dell’opus incertum, invece, poggiano l’una sopra l’altra ad embrice, formano muri non altrettanto belli, ma più solidi del reticolatum» (Vitruvio, De architectura, Trad. di G. Florian, 1978). L’ opus incertum si caratterizza per il suo mettere insieme elementi diseguali. Le pietre dell’opera incerta non sono pre-tagliate e predisposte per l’assemblaggio.

Mettere insieme le diversità in vista di un’opera comune: una sfida quanto mai attuale e mai come oggi condannata all’inattualità, messa nell’angolo e sfiancata dalla brutalità, dall’oblio e dalla menzogna, triade elevata a esercizio del…

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Come pianeti

Come pianeti irti di spigoli, in moto di rivoluzione
intorno ad un Sole lontano. Sospesi nel nulla
– quasi offesi dal miracolo dell’esistenza –
ruotiamo su noi stessi, ciechi di tutto il resto.

Come prismi di freddo cristallo prigionieri nella roccia
– in balìa del caso. Abbiamo infinite facce, innumerevoli
assi di rifrazione, in potenza. Scindiamo luce
sprigioniamo arcobaleni di effimero, prima della fine.

Qualunque

(Qualunque persona normale si terrebbe fuori da un gioco come questo. Ma tu non lo sei. Perciò, fa’ esattamente quel che devi.)

-Qualunque gioco curioso mi attira come il miele fa con l’orso. Questo, poi! Parlare di una “passione”. Non una qualunque: la mia. E farlo aggiudicandosi una delle ventisei lettere dell’alfabeto, con una corsa da insonni maniaci del web…”

(Innanzi tutto, lascia che il tempo passi, che tutti si aggiudichino le migliori. Arriva appena un attimo dopo quello giusto: quel tanto in ritardo da vederti soffiare di mano l’intero alfabeto. Poi disperati con garbo, tanto per far credere di averci provato.)

-Sono arrivato buon ultimo per caso. E ho beccato l’ultima rimasta. La Q, ovviamente, mica una lettera qualsiasi!

(Per rendere il rammarico più credibile, chiedi se è ancora libera la Q, la più dura. Dichiara che potresti scrivere di quisquilie, oppure di una “qualunque” passione. Se l’avesse già presa Carlo, contattalo e chiedigli di dividerla a metà.)

-Poco dopo mi contatta Mariella, chiedendomi di scrivere qualcosa a quattro mani. Qualcosa avevo già iniziato a scrivere, ma…la sua proposta  mi è piaciuta subito.

(Fa’ in modo che ti dica di sì, che faccia il gentiluomo. Che non sospetti neanche per un momento che la Q, per te, è solo un pretesto per…)

-In ogni caso, il pezzo già abbozzato superava abbondantemente i 2000 caratteri, era oltre il limite del gioco. Perciò, tanto valeva accettare la proposta. Qualunque argomento, Qui, Quo, Qua – Quaquaraqua – Quisquilie….tutto avrei digerito pure di scrivere qualcosa di originale: e con Mariella, sapevo che avrei potuto!

(L’hai convinto. E adesso ti tocca darti da fare, a quattro mani per giunta! Con tutte le faccende importanti che hai da sbrigare, questa era l’ultima delle occupazioni da procurarsi. Ma tu, come al solito, hai seguito la tua unica, vera passione.)

-Ecco, è andata così. E devo dire che è stato un bel gioco!

(Complicarsi l’esistenza: proprio una passione qualunque.)

*

czap & (mariella tafuto)
Gioco di scrittura a 4 mani, con la lettera Q e con limitazione di battute, pubblicato su “Apostrofo”, 2005

 

Alla parola “amore”

 La  lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio, inaspettata.

Fu Moltani, la cui voce al citofono gracchiò un saluto prima di avvisare che bisognava firmare, a consegnargliela.  Fabio Cini, il destinatario, viveva da molti anni nel piccolo paese di provincia della bassa padana in cui Moltani era l’unico postino, e imprecò mentalmente prima di sollevare il ricevitore e sbadigliare un insonnolito buongiorno.

– Ehi, Giovanni, mi hai portato qualcosa di buono, almeno? Altrimenti, guarda, non faccio mica la fatica di scendere, neh?

-Mi sa che è di una donna, sig. Cini …

-Una donna? Magari!

La grafia non sembra promettere nulla di buono: lei, questa donna qui, l’ha fatta di sicuro soffrire.
-Hai sempre voglia di scherzare tu…

-Scenda, su, non mi faccia penare ancora che c’è la Rosina che mi aspetta per cena…

La Rosina era la fidanzata storica di Moltani, e tutti speravano che un giorno lui l’avrebbe finalmente sposata

-Capperi, arrivo subito!

Non si poteva lasciar freddare la cena della Rosina: nell’attesa dell’ improbabile matrimonio,  aveva ancora qualche chance se riusciva a prendere Moltani per la gola

–    Mi saluti la signora Alba, mi raccomando.

-D’accordo, arrivederci.

La lettera che Fabio Cini si ritrovò tra le mani era chiusa in una busta di carta sottile di colore verde acqua. D’istinto l’uomo l’annusò: profumava vagamente di acqua di rose. Il nome del mittente, “Sonia … ma dov’è che l’ho già sentito questo nome qui?”, e il suo, coi relativi indirizzi, erano stati scritti con inchiostro blu su etichette adesive.

 

Fu quello che lesse dopo aver aperto malamente la busta a lasciarlo completamente sconcertato.   

                “Amore mio,

se ti dicessi che non ha più alcun senso vivere, penseresti che esagero.
Domani forse avrò cambiato idea e chissà … forse  riuscirò a indossare di nuovo  la mia voce più leggera. Ma adesso, mentre ti scrivo, è  una parola spaventosa, domani.
Perché adesso – che il silenzio di questa notte in cui sono immersa è anche il tuo silenzio – sono senza maschere, senza pelle.
Sulle spalle nude ho solo il peso insopportabile di un’intera esistenza trascorsa a lottare inutilmente facendo finta di crederci, che alla notte più nera segue sempre un’alba.”


 –   Fabiooo! Fabio!

La voce piagnucolosa di sua moglie lo distolse dalla lettura.  Ficcò la lettera in tasca e ciabattò lungo il corridoio.

-Sì, arrivo …

-E’ successo di nuovo. Me la son fatta addosso … – si lamentò Alba quando Fabio la raggiunse in camera da letto.

-Ernestina sarà di ritorno a momenti; lei metterà tutto a posto.

-Non posso aspettare Ernestina, non capisci?! Non lo senti il tanfo?? Che schifo!! E’ un incubo, non può star succedendo davvero!! Dio, Dio, cosa ho fatto di male per meritarmi questo castigo??

Lui non disse niente. Le si avvicinò e le accarezzò la fronte. Era fredda, sudata.

Quando l’aveva conosciuta era bella: era  la ragazza più bella del paese. Di tutta quella bellezza, pensò,  non era rimasto che il ricordo. Adesso Alba era soltanto un corpo piagato in un letto e un carattere incupito dalla sofferenza e dalla paura.

–  Vattene! Perché è successo a me? Perché mi è successo??! Non voglio morire così … Vattene!!!

Il campanello suonò, liberandolo temporaneamente dal tormento di vederla in quello stato. Aprì la porta e tirò un sospiro di sollievo.

-Salve, Ernestina… Credo che lei sia capitata proprio al momento giusto.

-Ho dovuto accompagnare la mia Cinzia dal dentista e poi riportarla a casa, sig. Cini, ma ho fatto prima che ho potuto … Buonasera, signora Alba, vedrà che la rimetto subito in sesto! – aggiunse rivolta in direzione della camera da letto.

Il cattivo odore che impregnava l’aria della stanza annunciò alla donna che quella serata sarebbe stata più faticosa del solito. Ma era così che si guadagnava da vivere, Ernestina: pulendo il culo ai moribondi e vegliandoli dal tardo pomeriggio all’alba. Per tirar su la Cinzia, sua figlia, che era il frutto della sola gioia d’amore  che aveva provato nella vita. Del padre della piccina si erano perse le tracce quando lei era ancora incinta, perciò Ernestina si era dovuta rimboccare le maniche e mettersi a lavorare sodo. A casa Cini faceva le notti da un paio di settimane, da quando la situazione della signora Alba era precipitata e il marito aveva dovuto decidersi a cercare un aiuto e una persona per farsi dare il cambio al capezzale  almeno di notte. Ernestina veniva pagata bene e trattata con gentilezza, che erano cose da tenere in conto. Insomma, via, era un lavoro pesante e la Cinzia frignava un po’ quando la lasciava, ma a lei serviva.

-Mi lasci sola con la signora, ci penso io qui.

-Le preparo un caffè, intanto…

In cucina Fabio spalancò la finestra e respirò a pieni polmoni. Vide che le mani gli tremavano, mentre preparava la caffettiera e accendeva il fornello. Il caffè serviva a tener sveglia Ernestina e Fabio gliene preparava sempre una tazza: era ormai diventata una consuetudine e, per lui, una benefica pausa dopo una giornata di calvario. Mentre attendeva che il caffé sgorgasse, tirò fuori dalla tasca la lettera.


“Il peso di tanti ieri passati così, a cullare uno sconforto indicibile. Domani sarà presto un altro ieri da aggiungere alla collezione, temo. Mi abbraccio, piango, mi dispero, urlo. In silenzio.
Può essere terribile, il silenzio, quando parla e ti chiede ossessivamente
“cosa cazzo ci fai ancora qui!?”
Provo a reagire,  a fare l’inventario di ciò che ancora possiedo.
Non è poco, ma non serve a nulla dirselo. E
non basta a farmi desiderare che arrivi domani.”

Sonia. Il nome gli era completamente sconosciuto. Doveva esserci stato un errore, di sicuro. Eppure c’erano il suo nome e il suo indirizzo, sulla busta, non riusciva a spiegarsi il mistero …

Rilesse tutto da cima a fondo. Non aveva mai avuto a che fare con una Sonia. “Che cosa ci faccio qui?”…

Ripassò mentalmente i nomi delle donne che aveva amato. Marta, Paola, Dorina … E Alba, da quando l’ aveva conosciuta, oltre vent’anni prima …

“Che cosa ci faccio qui?”. Era stato felice, con lei. Felice, fino a … Chissà chi era, quella Sonia … “Che cosa cazzo ci faccio, ancora qui?”… Già, cosa?

Come in trance si avvicinò alla finestra e si affacciò. La luce cominciava ad ammorbidirsi, ma l’aria era ancora incredibilmente tersa.

 C’erano gerani fioriti nei vasi posti sui muretti che delimitavano il perimetro del cortile. I petali dei fiori gli ricordarono un rossetto che aveva sulle labbra Alba in una lontana domenica d’aprile. Erano al mare, una  mattina, e passeggiavano a piedi nudi sulla battigia tenendosi per mano e fermandosi spesso a baciarsi. Dio, quanto era bella quel giorno! Tra un bacio e l’altro gli appoggiava la testa sulla spalla e gli sussurrava qualcosa all’orecchio. “Che cazzo ci faccio ancora qui?” Com’era, quella specie di poesia? Ah, sì…

Acqua marina sono e tu sei il vento
Onda mi faccio se mi parli dentro

Tu soffi dolce mi respiri accanto
M’ increspi tutta,  non ti plachi mai
Ridendo poi ti riempi del mio sale
Io bianca spuma invento (e sono Amore)

Mentre ricordava la poesia si era seduto sul davanzale. Alla parola ‘amore’ si lasciò cadere. Portò con sé la lettera della sconosciuta, il borbottìo del caffè e il ricordo del sorriso di Alba in un giorno di aprile.

 

(2008)

 

 

 

 

Prologo e aborto di una biografia non autorizzata

Foto di Genny Casella
Foto di Peppe Del Rossi

“Maruzzella T nacque un 23 novembre di tanti anni fa a Largo del Rosso. E, come la maggioranza dei neonati di quell’epoca, nacque di parto naturale. Tutti i bambini nascerebbero ancora come lei, se oggi si potesse nascere di parto naturale.

Era un fatto normale, a quel tempo, nascere di notte. E tutti i giorni della settimana erano buoni, e tutte le ore della notte. Mentre oggi è naturale che i bambini nascano di lunedì mattina, verso le dieci e un quarto, quando il ginecologo che deve praticare il taglio cesareo torna in ospedale o in clinica dopo il week-end.
Maruzzella T, dunque, nacque a mezzanotte e dieci, di sabato.
Fin qui nulla di rilevante, penserete voi. In ogni caso, nulla che giustifichi la redazione di una biografia, che di solito viene scritta per autori di ben più chiara fama. In quanto sua biografa ufficiale, io però non ho alcuna esitazione nel sostenere che vi sbagliate di grosso!
Secondo il racconto della Madre, infatti, dopo la sua nascita “s’arrevutatte ‘u vóico!”, nel senso che ci fu una piccola rivolta della popolazione di Largo del Rosso, paragonabile a quella che si era verificata quasi venti secoli prima, in quel di Betlemme.
A parte la differente condizione dell’essere femmina invece che maschio, dell’essere la settima di otto figli invece che primogenito e unigenito figlio di Dio e dell’essere figlia naturale di un pescatore invece che figlio putativo di un falegname, tutto il resto era infatti terribilmente somigliante.

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Compleanni

il-compleanno-del-nonno

 

 

 

 

 

 

 

Ottanta candeline gialle e verdi
sulla torta del nonno, e tu
che piccolino le fissavi
seduto in braccio a lui che ti teneva.
Sei anni, col sorriso birichino
che per le grandi imprese metti su.
E aveva un’espressione concentrata
il nonno: non sulle candeline
ma sullo sforzo tuo che le spegnevi.
E aveva dentro gli occhi quel miscuglio
di compiacenza e orgoglio – tu eri il suo campione
– l’accenno di un sorriso come grato, sul viso:
le avevi spente tutte al posto suo.

SABATOBLOGGER 42. – I blog che seguo

intempestivoviandante's Blog

2brecommended_blog_0

Franz Una bella presentazione, quella del ‘navigator cortese’, che parte dal presupposto che comunque svelarsi del tutto non è possibile e anche volendo farlo non sarebbe mai del tutto possibile, non solo sul web. La scrittura diventa confine ma al tempo stesso lo confonde, è un modo per arrivare a mostrare un sé più vero, dà ‘corpo alle nostre ombre’, ma è anche un corpo a suo modo sfuggente e non definibile. Di questo tema tratta anche il primo post che ho scelto: il rito e le origini, i fantasmi e le ombre, il mito e la scrittura, il corpo e le ombre… D’incarnato sangue mi riporta a un modo di vivere Dio che è scandalo e sovversione del perbenismo, non dogma e Ah, questa soglia, malinconica consapevolezza della distanza tra ciò che si vede e ciò che si vuole vedere, tra ciò che si desidera e la realtà.

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Twin Towers – Falling Down Bodies Message

Largo del Rosso

undici settembre

guardaci

.
non siamo
che piccole
macchie
disanimate

-falling-

indistinti
fantocci
fluttuanti
in
preci-
piz_io

-down-

. non
sentirai
alcun
tonfo

alla
fine

. noi
siamo

(troppo)

lontani
e

-bodies-

ci schian-
teremo
in silen-
z_io.

-message-

(settembre 2006)

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A mio padre

Mi hai fatta tu che non leggevi Rilke

Mi hai fatta tu che non sapevi altro
che correnti marine, che fondali
tu che fissavi solo terra e cielo
per capire dov’eri e dove andavi

Mi hai fatta rete scura nella notte
e guizzare di pesci  senza scampo
Mi hai fatta donna come fossi uomo
col sale del tuo amare senza dire

Mi hai fatta sasso scabro e voce sola
Mi hai  fatta fredde mani e caldo ventre
E mi hai accompagnata alla mia vita,
prima di accompagnarmi alla tua morte

*

papà

 

9. La Storia è fatta di cunti più grandi

Nella scuola elementare Maruzzella incontrò le storie che sapeva la maestra Anna Palazzina e quelle che erano chiuse nei libri di lettura e nei sussidiari.
Alla maestra non c’era bisogno di spiare nulla, che quella veniva pagata per insegnare tutto ai bambini, e a scuola ci andava per fare soltanto questo.
La Palazzina, pensava Maruzzella, aveva il dovere di cuntare e spiegare ogni cosa.In brevissimo tempo, grazie all’arte e all’amore di quella vecchia maestra, imparò a leggere e a scrivere; ed erano due abilità prodigiose che le vecchie Sarachèlle non tenevano e che Luisa, sua madre, aveva quasi del tutto dimenticato. Alla creatura pareva già un miracolo avere imparato a leggere. Le parole non erano più soltanto dette e ascoltate: si facevano vedere e stavano là sulle pagine, stampate per sempre. Che se lei era stanca e la sera si addormentava sui compiti da fare, il giorno dopo le ritrovava uguali a come erano il giorno prima!

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4. Il nome di Vicienzo lo vede, il mare.

-Zi’ Filumè’ …ma pecché ve chiammeno Sarachèlla?
-Eh, pecché …T’avess’ ‘a cuntà’ ‘na storia longa, Maruzzè’…Ma tu nun tieni suonno? E mammeta, comm’è ca nun te chiamma ancora?
-E’ andata dalla cummara Adelina a vedere la puntata alla televisione.
-E sòreta grossa addò’ sta?
-Sta facendo cumpagnia a ‘Ngelinella …

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Gioielli Rubati 268: Harte Mysia – Raffaele Ferrari – Chand – Lincol Martin – Gary J. Steele – Mariella Tafuto – Elena Milani – SaphilopheS.

All’appassire del sole, controluce, diafano e desolato, il mare mi apparve come un lucernario dell’ombra. . di Harte Mysia, qui: https://www.facebook.com/friends/requests/?profile_id=61550685701232 . * . Tutta la notte ha soffiato e si galleggia ora nella falsità d’un mare che non respira altro che incertezze d’anime alla deriva in cerca d’approdi . di Raffaele Ferrari, qui: https://www.facebook.com/profile.php?id=100093810257131 […]

Gioielli Rubati 268: Harte Mysia – Raffaele Ferrari – Chand – Lincol Martin – Gary J. Steele – Mariella Tafuto – Elena Milani – SaphilopheS.

INTERVISTA BIOGRAFICA A MIMMO GRASSO

Partiamo dall’origine: quali sono gli eventi d’infanzia che custodisce con più preziosità e che l’hanno segnata maggiormente? Non lo so. Prima di rispondere dovrei sottopormi a un’ipnosi regressiva. Da ragazzo della “Calabria Saudita” ero devoto a Pitagora. Poi, venuto nei Campi Flegrei, a Virgilio. Ritengo, pertanto, che l’evento più importante della mia infanzia fu l’immaginazione: […]

INTERVISTA BIOGRAFICA A MIMMO GRASSO