Dov’è il mondo intorno a me? Dov’è ora il ruggito della guerra? I rantoli delle vittime non penetrano il silenzio ovattato che mi avvolge.
Io posso solo sapere di questa porzione di mondo che gli occhi bevono ogni giorno. Il cielo è ancora chiaro, ma l’incendio del sole al tramonto è già lì, disteso sulla sagoma cupa dell’Epomeo.
E posso solo dirti di quel pino solitario che svetta sui campi che mi separano dalla distesa d’acciaio del mare. Dello spettacolo trionfale di sfilacciate nubi illuminate dagli ultimi bagliori, eppure già rassegnate a confondersi nell’oscurità che tutto avvolge, di sera.
Si spegneranno tutti i colori, come ogni volta che viene la notte. Ma, prima, tutto virerà nel viola, e quelle nubi dovranno addensarsi come colate di cenere.
E già si alza il vento, e gli spifferi sanno d’inverno e di gelo.
Se fossi qui potresti vedere la sedia nell’angolo del terrazzo, i cuscini gialli disposti a ventaglio a far da cuccia al cane. Saresti sorpreso per l’erba che cresce nella ciotola di terracotta, tripudio di vita nonostante il lungo abbandono. Forse diresti che è il suo giusto prezzo.
Ti accorgeresti dello sfrecciare rapido dei passeri che si affrettano a tornare ai nidi? E mi ordineresti con un sussurro prepotente fra l’orecchio e il collo di alzarmi e seguirti altrove?
Annega nel sangue questo giorno di gennaio. E non riesco a raccontarti altro che la sua splendida morte.
LUX in FABULA – RIONE TERRA 1968 – “Sinfonia della Terra” di Lorenzo Lamagna; “A Serenata d’ ‘o marenar” di Aniello Califano – Salvatore Gambardella, 1903; “Se po sunà” di Gianni Lamagna – Musiche eseguite da Lorenzo Lamagna (clarinetto) Gianni Lamagna (chitarra) Giosi Cincotti (fisarmonica) Arcangelo Michele Caso (basso). Riprese sonore Arcangelo Michele Caso.
La prima volta che sono ‘salita’ al Rione Terra, nei primi anni ’70 del Novecento, la rocca era già disabitata, ma ancora accessibile. Ho attraversato i vicoli deserti insieme alle mie compagne di scuola e qualcuno, dall’alto di un balcone pieno di sterpaglie, ci ha lanciato addosso un porta-sapone di metallo, col chiaro intento di mandarci via. Eravamo un gruppo di ragazzine e siamo scappate. La seconda volta tutti gli accessi al Rione erano sbarrati, ed era il 1984. Lo so perché la vista di un muro che impediva l’accesso al Sedile di Porta, l’ingresso principale al Rione Terra, mi spinse a scrivere questi ‘versi’.
Rione Terra
Un giorno quasi per caso
percorro una strada in salita
E in cima trovo un muro
di cemento armato
una barriera insormontabile
che preclude l’accesso
(A cosa mai servivano tutti quegli uncini quei cocci di bottiglia lassù in alto se non a separare la mia gente dal gusto antico delle sue radici?)
Nel muro
ben serrata
una porta di ferro
Oltre il muro tutto un mondo vuoto
ormai privo di voce
occhi neri di finestre spalancate
come spettrali bocche stupite
e balconi infestati di erbacce
orfani di danze di panni stesi
E’ in scena il silenzio spettrale
di un palcoscenico deserto
Brandelli di tende al vento
desolato sipario
(Giaceva dimenticata chissà in quale tasca in quale testa smemorata una chiave) (1984)
N.d.A.
Il Rione Terra era il cuore antico della mia Pozzuoli. Fino al marzo del 1970 pulsava di vita, poi fu evacuato e recintato, dopo una crisi di bradisismo che fece sollevare il suolo del mio paese di circa due metri. Da oltre trent’anni aspetta di essere restituito alla memoria dei Puteolani, che nel frattempo sembrano averne dimenticato l’esistenza. I lavori di restauro, iniziati da molto tempo e non ancora conclusi, hanno portato alla luce un patrimonio archeologico di valore inestimabile, sepolto da duemila anni sotto il dedalo di vicoli e di palazzi che vi sono stati costruiti sopra. Sono stati individuati e resi visibili i tracciati delle strade, i resti delle case e delle taberne, persino le macine e i forni che fornivano la farina e il pane agli abitanti della Puteoli di epoca romana. In un futuro ormai prossimo, almeno si spera, il Rione Terra sarà aperto interamente al pubblico. Già adesso, in determinati periodi dell’anno vi giungono visitatori provenienti da ogni parte del mondo e alcuni palazzi vengono utilizzati in occasione di eventi culturali quali mostre, convegni e spettacoli. E’ da escludere un rientro della popolazione nei palazzi restaurati, che diventeranno uffici del Comune, sedi di associazioni culturali, locali per mostre ed eventi culturali.
Se volete saperne di più, e magari organizzare una vacanza che includa un tour nei Campi Flegrei e una visita a Pozzuoli, potete documentarvi utilizzando un qualsiasi motore di ricerca. Scoprirete che nella mia terra vi sono vulcani, solfatare, acque termali, monumenti archeologici di eccezionale importanza come l’anfiteatro Flavio e il Tempio di Serapide, e anche la nuova Pompei della Campania, sotto il Rione Terra.
Procida e Ischia viste dalla spiaggia di Miliscola, Campi FlegreiVeduta di Capo Miseno dalla spiaggia di Miliscola, Campi Flegrei
La poesia è stata inserita nel catalogo della mostra di dipinti dell’artista flegreo Vincenzo Aulitto sul tema “Miseno”, ispirato al promontorio che prende il nome dal mitico trombettiere di Enea, morto, secondo la leggenda, nelle acque del golfo di Pozzuoli (episodio che Virgilio inserisce nel sesto libro dell’Eneide, vv.226).
nuje simmo tèrre
ca ‘nt’ ‘a scuràta
tornano â casa
1.
Perché m’incanta così tanto
questo mio mare domestico?
Le scura rena lambita dall’onda
pare risponda: “Perché lo conosci,
perché ti conosce. Ti ri-conosce.”
E sciabordando di spuma risacca
pare annuire tranquillo, il mio mare.
2.
Rosa cipria del cielo
col nero di scogliera
spiaggia di Miliscola
ultimo dì di marzo
– anno duemiladodici –
sul fare della sera.
Traduz. dei versi in dialetto puteolano Il sole cala, il sole si leva. Noi siamo terre che all’imbrunire tornano a casa.
Quieto pomeriggio di settembre
in un grande cortile di paese.
Nell’aria , impalpabile velo
la noia si stende.
Brevi, i voli dei colombi
nel cielo senza nubi.
**
( sono un filo d’erba, io
sono una nuvola del tramonto … )
Nel trentennale del 4 ottobre 1983, data in cui vi fu la scossa che provocò l’evacuazione dell’intero centro storico di Pozzuoli e lo spostamento a Monterusciello di gran parte della popolazione che vi risiedeva, a cura dell’Associazione“Terra Meridiana”, esce il libro intitolato “Terre & Moti del cuore”(Il racconto del ricordo) ed. Valtrend
Il libro di racconti e testi poetici scaturiti da interviste concesse a scrittrici e scrittori flegrei da trentadue testimoni, puteolani e non, dei due Bradisismi che interessarono la città nel 1970 e nel 1983.
Questi testimoni, a distanza di trent’anni dall’ultima crisi bradisismica, culminata con la scossa del 4 ottobre 1983 – a seguito della quale tutta la zona costiera della città vecchia (la Pozzuoli bassa, abitata essenzialmente da pescatori, proletari, artigiani e piccoli commercianti) fu sgomberata – rivivono e raccontano i momenti più drammatici di due esodi che da molti abitanti del Rione Terra (marzo 1970), e del resto del centro storico tredici anni dopo, fu vissuto come una vera e propria deportazione.
Gli oltre 3.000 sgomberati dal Rione Terra nel marzo del 1970 furono trasferiti, dopo alcuni anni trascorsi da ‘terremotati’ nei vari Comuni dell’hinterland napoletano e casertano, in Contrada Toiano, ex zona agricola in cui fu costruito un mega-quartiere dormitorio destinato ad accoglierli.
Gli oltre 30.000 sgomberati della ‘zona A’ – la fascia costiera occupata dalla città bassa, che dagli esperti fu ritenuta quella a massimo rischio sismico nel 1983 – anch’essi dispersi tra campeggi, case di villeggiatura della fascia domizia, alberghi e baraccopoli di case-container, furono invece trasferiti dopo alcuni anni a Monterusciello, altra zona agricola collinare del territorio puteolano coltivata soprattutto a frutteto.
Sono nata una notte di novembre in un posto incantato, un posto dove il tempo era fermo e la magia si tagliava a fette. Si chiamava, e si chiama tuttora, Largo del Rosso.
Era un vicolo a forma di cortile, il cui ingresso era nascosto a quelli che non avevano occhi per vedere, ed era come una grande casa per tutti quelli che l’abitavano.
Era un luogo pieno di bambini, di giochi, di vecchi che raccontavano storie; era un mondo pieno di gente che parlava.
E’ lì che ho imparato la poesia, perché la respiravo.
Era nelle voci delle donne che intrecciavano cunti (1) e nenie mentre insieme preparavano conserve; nelle voci dei bambini, che giocando si tramandavano filastrocche e conte; nelle voci dei venditori ambulanti, che lanciavano i loro richiami; nella musicalità araba del dialetto che parlavo e che ascoltavo, ricco di parole per dire ogni cosa.
Era nell’aria, nel profumo dei glicini a marzo, nel tubare tranquillo dei colombi, nelle stelle della cintura diOrione (“Quanno accumparene i tre fratielle, allestiteve i capputtielle! “(2)) che annunciavano la fine dell’estate; e nei riti che si ripetevano uguali, segnando il cambio delle stagioni.
Era nei colori, nelle forme che assumevano le cose: era il ritmo che mi formava e che mi nutriva di sé.
Da lì sono partita, ed è lì che torno, quando la Poesia mi scorre dentro.
Note:
1. cunti = racconti orali
2. Era un detto dei pescatori, un modo per insegnare a riconoscere la fine dell’estate= quando compaiono in cielo “i tre fratelli” (le stelle della cintura di Orione) preparate i cappotti.
Scusi……non ci conosciamo
giravo per la rete in cerca di materiale per la mia tesi di laurea,
tra un sito e l’altro mi ritrovo nel suo space.
A “Largo del rosso” vivevano i miei nonni
li e’ nato il mio papa’
e tutti i miei zii…
ci passo spesso
ma non entro mai
quei luoghi appartengono a vaghi ricordi….ed li rivivo grazie a qualche raro racconto del mio papa’ che ora ha 70 anni!
Complimenti per come scrive…e per l’amore che ha verso questi luoghi
mi sono emozionata e meravigliata nel riconoscere tanta familiarita’.
Si scrive di quel che si perde di quel che non si è mai avuto – due braccia forti e un tango – di ciò che non si è pescato
di maglie da cucire sotto il sole e della rete di una vita intera, bianca tinta di ruggine. Si scrive delle squame del sale che si asciuga sui calzoni degli stivali in gomma nella melma e delle notti cupe sopra il mare
quando si aspetta l’alba. Quando si va per porti e per mercati, dentro la nebbia.
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