Siamo tutti qui
i presenti e gli altri:
quelli che più non sono
o sono altrove.
Gli assenti più dei presenti
seduti a tavola.
(dicembre 2003)
Siamo tutti qui
i presenti e gli altri:
quelli che più non sono
o sono altrove.
Gli assenti più dei presenti
seduti a tavola.
(dicembre 2003)
Nadija è rientrata da poco, perché il giovedì ha il pomeriggio libero, come in genere tutte le donne straniere che accudiscono persone anziane in Italia.
Seduta sul divano, mia madre guarda la televisione; a poca distanza da lei Nadija, mia sorella Teresa ed io siamo sedute a tavola, nell’angolo che fa da cucina. Abbiamo appena finito di mangiare la pizza al pomodoro preparata da mia sorella. Chiacchieriamo del più e del meno, quando d’un tratto gli occhi di Nadija si illuminano, come succede sempre quando pensa a qualcosa che la rende felice.
– Frutta sta! – E così esclamando si alza e corre in veranda.
– Mangia, Mariela! – mi invita con tono perentorio al ritorno, deponendo sul tavolo della cucina quattro arance tonde color oro. Ha un largo sorriso stampato sulla faccia pulita mentre depone sul tavolo i frutti raccolti sull’albero che è in giardino. Maturano senza l’aiuto di antiparassitari o concimi chimici, sono completamente naturali.
– Stamattina io raccolto arance! Sono buonissime! Mangia, tu piace… – spiega Nadija nel suo buffo italiano.
Le sorrido, grata del pensiero. Lei mi conosce meglio di Teresa, la mia sorella maggiore che vive altrove da oltre vent’anni e che è venuta a trovare mamma prima delle feste: dice con lo sguardo più di quanto dica con le parole. Ci guardiamo, sorridendo l’una all’altra, mentre sbucciamo le arance con le mani. Che buono, l’odore che si sprigiona in cucina! Sa di fuochi accesi, di sere affollate, di giochi… sa di Natale…
Se ci fosse mio padre tutto sarebbe perfetto. Ma se n’è andato all’inizio dell’estate, quando questi frutti erano palline verdi nascoste tre le foglie.
A lui piaceva raccogliere le arance dal “suo” albero, in inverno. Per tutta la vita aveva avuto sotto i piedi le assi di legno del gozzo e l’ondeggiare cedevole del mare, fino ai settanta era vissuto sempre lontano dalla campagna e dai suoi prodotti, ma dopo l’esodo dal centro di Pozzuoli aveva scoperto che lentamente un fiore può trasformarsi in frutto.
Quando eravamo andati a vivere in periferia, nella casa nuova, nel vedere il microscopico giardino con quella pianta di cui non riconosceva la specie (era un arancio, ma a quel tempo nessuno di noi era abbastanza esperto per dirlo) mio padre aveva avuto un moto di disappunto, pensando a tutti gli inconvenienti che avrebbe comportato la gestione di quel piccolo pezzo di terreno. Aveva settantuno anni, quando ci eravamo trasferiti a Monterusciello. Te lo immagini un vecchio pescatore trapiantato su una collina ventosa? Io invece ero al settimo cielo per la gioia e pensavo a tutte le possibilità che il ‘giardino’ avrebbe offerto al mio pollice verde senza esperienza. Quando vivevamo a Largo del Rosso avevo già provato a coltivare piante in vaso fuori al balcone, ma senza risultati incoraggianti; ero certa che in quel giardino avrei imparato, come poi pian piano successe.
Col passare degli anni anche l’atteggiamento di mio padre era lentamente cambiato. Man mano che per lui diventava sempre più faticoso recarsi ogni mattina in centro, alla darsena dov’era ormeggiato il peschereccio dei miei fratelli, si era attaccato a quello spazio a lui alieno. Un giorno si era portato a casa le reti da rammendare e aveva scelto il giardino come angolo per lavorare. Era strano vedere un vecchio pescatore rammendare le reti in un quartiere in collina, nel verde di un luogo che mal si conciliava con un’attività come quella.
Pian piano si era affezionato alla vegetazione, che all’inizio gli dava quasi fastidio. Ricordo un dicembre in cui scrutava tra i rami e contava le arance ancora verdi, per annunciarmi poi con un sorriso trionfante: – Ce stanne quattòrdece purtüàlle!!
Prima di quell’anno la pianta non aveva mai fruttificato, forse perché troppo giovane, e lui si era convinto che si trattasse di un arancio selvatico, dunque inutile. Ma da quel momento in poi aveva atteso ogni primavera la fioritura e poi spiato con ansia le piccole sfere verdi che si accrescevano lentamente; le aveva quasi fatte maturare con gli occhi – spazientendosi con mia madre che aveva sempre fretta e le raccoglieva quando erano ancora acerbe – in attesa di procedere solennemente alla raccolta e alla successiva distribuzione a noi figli.
Litigavamo con lui, per gioco, sulla distribuzione delle arance, accusandolo di non essere equo nel fare le parti, e persino di essere tirchio, di volerle tenere tutte per sé. Lui si arrabbiava per finta, e rideva, ma io sospettavo che un po’ gli dispiacesse davvero separarsi dalla maggior parte del raccolto. Poi il tempo era trascorso …
Alla fine di un calvario lungo due anni, disteso nel suo letto, la scorsa primavera mi aveva chiesto di chiudere le persiane della finestra che si affacciava sul giardino.
– Oggi è una giornata così bella, papà – gli avevo detto sorridendo – perché non lasci che entri un po’ di luce?
Lui aveva girato la faccia verso il sole del giardino, verso la neve bianca delle zagare spruzzata sul verde intenso del fogliame.
– Guarda! L’albero è tutto fiorito, quest’inverno sarà carico di arance …
Ed ero ammutolita davanti a quello spettacolo, trafitta improvvisamente dal pensiero che mio padre non sarebbe arrivato all’inverno, che il suo tempo si sarebbe fermato prima.
Si può essere molto crudeli, a volte, senza volere.
Lui aveva guardato fuori, poi aveva distolto gli occhi dalla chioma fiorita del ‘suo’ albero con un’espressione che non riesco a dimenticare. Con voce stremata mi aveva ripetuto di chiudere le persiane, ed io l’avevo accontentato senza più insistere, permettendogli di assopirsi per un po’. L’odore delle zagare era così inteso che stordiva, mi torna dentro coi ricordi mentre mastico lentamente.
Avrei voluto trattenerti fino a quest’inverno, papà, fino a questo raccolto. Avrei voluto vederti ancora felice, seduto in giardino con la palettina di plastica rossa per scacciare le mosche. Ogni tanto l’avresti allungata sulla testa di mamma fingendo di volerla battere, con la lingua stretta tra le labbra e un’espressione da duro di pasta frolla.
Avrei voluto che il tempo si fermasse, ma non è successo …
(2003)
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