Ballata per Gina, atto II

Gina che muore di sonno, che si rifiuta di chiudere gli occhi;
che quando dorme non sogna, o che forse sì ma al risveglio
non ne resta traccia; Gina che forse da sveglia non ne possiede
abbastanza, di sogni; che forse la speranza di un sogno se l’è
portata via il tempo. E il tempo ganzo con cui andare a letto
può sempre aspettare, che tanto Gina i suoi bocconi di notte
non se li fa più rubare. Gli spazi di silenzio dentro il buio fitto
le fanno da coperta e lei, Gina che dorme sempre troppo poco,
se la tiene stretta.

Nel nero trafitto da un lampo, spesso, scintilla una parola:
lei aspetta quella più giusta per farsene lenzuola; e sprimacciando
una voce se ne fa guanciale; Gina si ninna da sola.
Non ne può più dell’inverno che le stringe la gola; pensa
che fuori è caldo, che tanto in casa tutti dormono e che c’è
nessuno che l’aspetta. E allora vola,

fuori dal terrazzino, vola verso la bocca dei cani
che urlano alla notte verso la luna piena, verso una stella lontana,
stella forse contenta/ di vederla arrivare. Vola
verso il destino che è stato scritto per lei, Gina.

E so del tempo perché scruto il cielo

La costellazione di Orione fotografata da Giovanni Conte
“Quann’accumpàren’ ‘i tre fratiélle, allestitev’ ‘i capputtiélle.”

Le tre stelle allineate della Cintura di Orione, chiamate dai pescatori puteolani “I tre fratiélle”, ovvero i tre fratelli, appaiono nel nostro cielo sul finire dell’estate. E avvisano i pescatori che bisogna prepararsi ad affrontare l’inverno.

C’è un detto popolare che ho sentito ripetere da mio padre e lo lascio sotto questa immagine:

“Quann’accumpàren’ ‘i tre fratiélle, allestitev’ ‘i capputtielle.”

I tre fratiélle sorgevano verso la fine di agosto, nel pezzo di cielo che si poteva vedere da casa nostra, sbucando all’imbrunire  oltre il palazzo che noi chiamavamo ‘u palazz’ ‘i ‘Ddulurata, e che in realtà era un’antica torre di avvistamento spagnola che negli anni sessanta del Novecento era ancora abitata da due famiglie e che dopo il Bradisismo del 1970 rimase deserta e in abbandono. Quando ero bambina nel palazzo mezzo scarrupato abitava soltanto Ddulurata. Io ci entrai una volta con altri bambini del vicolo, e salii le scale buie e polverose fino in cima. Fu una specie di prova di coraggio, ricordo ancora la lotta per vincere la paura, i gradini privi di marmi, di pietra nuda rosicata dal tempo, e l’odore penetrante di umido. Visto da casa mia il ‘palazzo’ era tutto di tufo giallo, e negli interstizi tra le pietre facevano i nidi i colombi. Era un buon fondale per osservare il cielo, di notte. E all’inizio della primavera da dietro il palazzo sorgeva finalmente il sole, che nei lunghi mesi invernali era troppo basso per farsi vedere, e la sua luce arrivava sul mio balcone.

(foto di Giovanni Conte)