Nel poi

Il ‘poi’ è il tempo dopo l’esodo: quello del disadattamento, del rifiuto del trapianto, quello della rivolta e della nostalgia per la mia Macondo. Il tempo del progressivo, lento, inesorabile e necessario ri-adattamento. Tutto il tempo che è trascorso dal 1984 ad oggi. Nel quale, il giorno che ho scritto questi versi – avevo fatto una passaggiata col mio cane nel viale che collega il mio condominio agli altri e alla strada, ed era una bella giornata di aprile che chiudeva un periodo di maltempo – mi sono sentita, forse per la prima volta a distanza di vent’anni, di nuovo nel posto giusto. In pace. Nuovi paesaggi negli occhi, nuovi colori, nuove abitudini, nuovo clima, nuove percezioni e nuove modalità relazionali, e niente sarebbe stato più come prima.

E basta

E basta
l’odore di legna tagliata
della pioggia, all’uscio esposto
dell’inutile tana di una volpe
forse acquattata sul fondo,
ancora, su cuccioli invisibili,
e al trillo di un minuscolo
minuscolo uccello. Le piume
bianche alla gola fremono
di gioia, mentre coraggioso
canta e si mostra a chi passa
e lo ascolta, rapito. E basta

il lieve, tormentato incanto
di un mondo che si asciuga
all’erba falciata di netto
come agli sterpi morti
e a questo cumulo di pietre
senza importanza, che era vita
prima. Basta, ciò che resta
di pulcini nei nidi, al merlo
che fruga tra i rovi, al cane
che uggiola e annusa. E basta
un istante di pace, al dolore
dell’acqua caduta, alla soffice
pausa di perla della luce.

(18 aprile 2004)

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