Agosto in spiaggia, e passa Mustafà. Che è solo un po’ più grande di mio figlio. Diciassette anni appena e qui non ha nessuno. Che chissà da dove viene, chissà com’è arrivato. Che ha i denti macchiati – guardalo bene mentre parla – che non ha l’apparecchio. Che ha già la pelle vizza di un vecchio, Mustafà. Che ha sete e chiede da bere. Che ha tutto questo camminare sulla spiaggia, nelle gambe, tutto questo procedere senza filtro, senza protezione, col suo carico di stracci legato sulla schiena.
Il nodo, vedi, non riesce a scioglierlo: mi chiede l’accendino per bruciare la corda e liberarsi della soma.

Mustafà che è venuto in Italia da solo. Che a Ponticelli ha trovato un posto da apprendista carrozziere. Che proverà da settembre a cambiar vita, purché la fortuna lo aiuti.
Che mi chiede di fargli scudo con le mani, perché il vento continua a spegnere la fiamma che dovrebbe spezzare lo spago.
Che ha una brutta cicatrice sulla fronte e non saprò mai cosa gli è successo. Che non riesco a far andar via.
Penso a sua madre, mentre si riposa all’ombra: sono sua madre anch’io.
Mustafà – potrei chiedergli di venire a casa … – figlio dell’Africa che ho pudore di abbracciare.
Che mi fissa con occhi d’ambra e mi dice di sé, e pare aspettare. Mentre sa già che lo aspetta Ponticelli, e se va bene un posto letto in periferia.
– Prendi il vestito arancione, signora: è il più bello …

Foto di Dario Di Franco, dall’album “Venditori di sabbia”