Poesia al passo coi tempi

Ci vuole nulla a scrivere una poesia al passo coi tempi.

Ci metto un orario, magari le 14:55, il binario di un treno,

24, il codice di imbarco del biglietto aereo, EZY2341.

Scaduti. Prima di gettarli via, nel secchio della carta.

Ci metto una, in farmacia, col camice bianco e l’anima

da venditrice, o lo scontrino dei farmaci per l’onicomicosi.

Inutile, come i farmaci. Poi rifletto sull’evidenza che

le multinazionali non abbiano interesse a sconfiggere

infezioni fastidiose come l’onicomicosi, che la tipa

della farmacia dovrebbe rifiutarsi di battere.

Scontrini per farmaci inefficaci. Sul fatto che la somma

richiesta, e ci metto pure la somma – € 35.00 –

sia del tutto spropositata, sul fatto che io lo so

e che anche lei, la tipa, lo sa bene. Ma una poesia

scritta di corsa, così, tanto per mettersi al passo

coi tempi, si vergogna di se stessa, e tace.

(31 marzo 2014)

Ma-à

È quasi l’alba. Vorrei non dover mai andare a letto. Si sta bene di notte, si sta da soli. Si sente il vento che sbatte contro le tapparelle, il tu-tu della cornetta staccata del telefono per evitare che al mattino suoni la sveglia. L’avevo attivata una sera, pensando che sarebbe partita soltanto il mattino seguente. E invece ha continuato a partire ogni mattina, col trillo insistente di chi non gliene può fregar di meno, se tu non riesci nemmeno ad aprirli, gli occhi, figuriamoci ad alzarti di botto. E parte tutti i giorni, compreso il sabato e la domenica, e non riesco più a disattivarla se non staccando la fottutissima cornetta! 

Staccare. È l’unica strategia che funzioni, pare …

Credo di non aver mai superato il dolore per la separazione forzata da mia madre. Altrimenti, non si spiegherebbe com’è che non riesco a staccarmi dalle persone, nemmeno se si tratta di estranei come questo Scalpellini, con cui in fondo ho poco o nulla da spartire. E’ un tratto patologico della mia personalità, credo. Le persone normali si liberano facilmente di ogni impiccio relazionale; io mi sento dilaniata da un dolore indicibile ogni volta che qualcuno mi sbatte in faccia un rifiuto.

A volte cerco di acchiappare il ricordo, di me abbandonata in una culla di metallo in uno stanzone gremito di culle occupate da bambini piangenti. Ma sarebbe più giusto dire che cerco di ricostruire la scena che ho ‘visto’ tante volte, quella che ho immaginato ascoltando i racconti di mia madre …

Perché sono stata strappata alle sue braccia? Devo essermelo chiesto, tra un singhiozzo e l’altro. Dov’è il calore animale del suo corpo, dov’è il suo capezzolo? Dovevo essere abituata ad attaccarmici ogni volta che avevo sete, e freddo, e sonno … e paura … Dov’è casa mia? Il mio seggiolone, i miei fratelli … ‘Te-éta’ … Era Natale, eravamo tutti intorno alla tavola, io nel seggiolone mangiucchiavo una ‘castagna del prete’, così diceva mia madre. Perché adesso sono qui? Devo essermelo chiesto, chissà, o devo averlo pensato. Devo aver provato a portare una mano alla bocca e … Perché non riesco più a muovermi?

Maammaa! Ammesso che si possa riuscire a pensare, a soli tredici mesi e col terrore addosso. Chi non capisce non pensa, un bambino a quell’età non capisce: piange e basta.

Allora immagino che piango. E’ stato per il troppo piangere che mi sono addormentata. Ecco, adesso sono in quella culla di ferro e metto una pausa alla paura. Quando mi sveglio riprendo a piangere ma non mi esce più la voce. Intorno a me sento solo lamenti, urla disperate e voci rauche e gementi.

Ancora qua, sto?? Cos’è, questo grande incubo pieno di bambini soli? Un bambino deve stare con la sua mamma … Dov’è mia madre? Mamma … Mamma! Maa!!

Passa chissà quanto tempo … chissà se ho smesso mai di piangere e di chiamarti. Quando sei entrata in quello stanzone – quando finalmente ti hanno permesso di entrare nel reparto in cui venivano ricoverati a forza i bambini ammalati – tu non riuscivi a distinguermi tra tutti quei piccoli corpi artigliati dalla paralisi. Ero una bambola flaccida, tra tutte quelle creature aggredite da un invisibile, microscopico mostro.

Prima che mi prendesse, io avrei potuto tenderti le braccia e avvinghiarti; avrei potuto scavalcare la sponda di quella culla, e sgambettare tra tutti quei corpi inerti, per raggiungerti … Ma ora non potevo che chiamare ‘Ma-a …’, tra un singulto e l’altro, e ogni respiro era già un’impresa.

Non avrei potuto arrivare in fondo a quella lunghissima parola: Po-lio-mie-li-te.

L’ultima grande epidemia di poliomielite in Italia, e tutti quei bambini tra le ultime vittime, tante. Trentaquattromila bambini. Migliaia di piccole vite segnate. La mia, tra quelle vite. Sono qui, mamma… mi vedi ?? “Màa … “

Tu avevi un camicione verde, una cuffia sui capelli e una mascherina a coprire il volto, ma io ti ho riconosciuta. Ho singhiozzato quel “Mà-a …” arrochito e sorpreso, e devo averci messo un po’ di rimprovero in quel richiamo, perché tu mi raccontavi di aver affrettato il passo e di esserti diretta verso di me, senza più alcun dubbio. Mi hai tirata su di peso dalla culla e mi hai stretta al petto. Poi ti sei accovacciata sul pavimento, hai tirato fuori un seno gonfio e dolente, che dicevi ingorgato di latte non munto, e mi hai permesso di svuotarti la mammella. 

Io ti divoro, mamma! Ti succhio anche l’anima. Non lasciarmi mai più, non lasciarmi! Come hai potuto permettere che mi portassero via, come hai potuto!? E succhio avida, mentre tu versi a fiotti nella mia bocca tutto il latte di cui mi avevi privata.

Dovevi nascondermi in qualche angolo buio, dovevi sbattere fuori di casa il dottore che ha disposto il ricovero: perché non l’hai fatto, perché hai lasciato che mi prendessero, brutta stronza!? Tu piangi e mi tieni stretta tra le tue braccia, io mugolo mentre ti strizzo il petto. Poi cominci a dondolarmi sussurrando una nenia antica, la stessa che canterai pure a mio figlio, tanti anni dopo. Tu mi canti la tua ninna nanna, mamma, quella che parla di un lupo che mangiò la pecora e di barche che tornano in porto piene di pesci d’argento; e io mi lascio cullare dalla tua voce lamentosa, io mi addormento.

 Mia madre con me in braccio, nel giardino dell'ospedale in cui venivo curata, dopo la polio.







Mamma con me in braccio, credo nel giardino dell’ospedale dov’ero ricoverata, dopo la polio.

“Eh sì! La vita è bella: bisogna ridere a tutta bocca solo per il fatto di essere nati.”: non faccio che ripetermelo.

Solo che ogni tanto, a sorpresa, arriva una randellata, e allora è comprensibile che il sorriso si smorzi.

Qui avevo appena affrontato il primo “lutto” della mia vita: avevo provato l’angoscia di una separazione, avevo già pianto tutte le mie lacrime (ma non sapevo che la fonte delle mie lacrime era e sarebbe rimasta inesauribile) fino a diventare afona. Poi, per fortuna, avevo visto riapparire mia madre, il cosiddetto “oggetto d’amore”, e m’ero un poco tranquillizzata.

Chissà a che pensavo. M’ero pigliata una paura terribile!!

Se fossi quella di adesso mi direi: “Vabbuó, il peggio è passato …”

Secondo me ero già quella di adesso.


 

Arance

È un giovedì searancera, all’inizio di dicembre, a casa di mia madre.

Nadija è rientrata da poco, perché il giovedì ha il pomeriggio libero, come in genere tutte le donne straniere che accudiscono persone anziane in Italia.

Seduta sul divano, mia madre guarda la televisione; a poca distanza da lei Nadija, mia sorella Teresa ed io siamo sedute a tavola, nell’angolo che fa da cucina. Abbiamo appena finito di mangiare la pizza al pomodoro preparata da mia sorella.  Chiacchieriamo del più e del meno, quando d’un tratto gli occhi di Nadija si illuminano, come succede sempre quando pensa a qualcosa che la rende felice.

Frutta sta! – E così esclamando si alza e corre in veranda.

Mangia, Mariela! – mi invita con tono perentorio al ritorno, deponendo sul tavolo della cucina quattro arance tonde color oro. Ha un largo sorriso stampato sulla faccia pulita mentre depone sul tavolo i frutti raccolti sull’albero che è in giardino. Maturano senza l’aiuto di antiparassitari o concimi chimici, sono completamente naturali.

Stamattina io raccolto arance! Sono buonissime! Mangia, tu piace… – spiega Nadija nel suo buffo italiano.

Le sorrido, grata del pensiero. Lei mi conosce meglio di Teresa, la mia sorella maggiore che vive altrove da oltre vent’anni e che è venuta a trovare mamma prima delle feste: dice con lo sguardo più di quanto dica con le parole. Ci guardiamo, sorridendo l’una all’altra, mentre sbucciamo le arance con le mani. Che buono, l’odore che si sprigiona in cucina! Sa di fuochi accesi, di sere affollate, di giochi… sa di Natale…

Se ci fosse mio padre tutto sarebbe perfetto. Ma se n’è andato all’inizio dell’estate, quando questi frutti erano palline verdi nascoste tre le foglie.

A lui piaceva raccogliere le arance dal “suo” albero, in inverno. Per tutta la vita aveva avuto sotto i piedi le assi di legno del gozzo e l’ondeggiare cedevole del mare, fino ai settanta era vissuto sempre lontano dalla campagna e dai suoi prodotti, ma dopo l’esodo dal centro di Pozzuoli  aveva scoperto che lentamente un fiore può trasformarsi in frutto.

Quando eravamo andati a vivere in periferia, nella casa nuova, nel vedere il microscopico giardino con quella pianta di cui non riconosceva la specie (era un arancio, ma a quel tempo nessuno di noi era abbastanza esperto per dirlo) mio padre aveva avuto un moto di disappunto, pensando a tutti gli inconvenienti che avrebbe comportato la gestione di quel piccolo pezzo di terreno. Aveva settantuno anni, quando ci eravamo trasferiti a Monterusciello. Te lo immagini un vecchio pescatore trapiantato su una collina ventosa? Io invece ero al settimo cielo per la gioia e pensavo a tutte le possibilità che il ‘giardino’ avrebbe offerto al mio pollice verde senza esperienza. Quando vivevamo a Largo del Rosso avevo già provato a coltivare piante in vaso fuori al balcone, ma senza risultati incoraggianti; ero certa che in quel giardino avrei imparato, come poi pian piano successe.

Col passare degli anni anche l’atteggiamento di mio padre era lentamente cambiato. Man mano che per lui diventava sempre più faticoso recarsi ogni mattina in centro, alla darsena dov’era ormeggiato il peschereccio dei miei fratelli, si era attaccato a quello spazio a lui alieno. Un giorno si era portato a casa le reti da rammendare e aveva scelto il giardino come angolo per lavorare. Era strano vedere un vecchio pescatore rammendare le reti in un quartiere in collina, nel verde di un luogo che mal si conciliava con un’attività come quella.

Pian piano si era affezionato alla vegetazione, che all’inizio gli dava quasi fastidio. Ricordo un dicembre in cui scrutava tra i rami e contava le arance ancora verdi, per annunciarmi poi con un sorriso trionfante: – Ce stanne quattòrdece purtüàlle!!

Prima di quell’anno la pianta non aveva mai fruttificato, forse perché troppo giovane,  e lui si era convinto che si trattasse di un arancio selvatico, dunque inutile. Ma da quel momento in poi aveva atteso ogni primavera la fioritura e poi spiato con ansia le piccole sfere verdi che si accrescevano lentamente; le aveva quasi fatte maturare con gli occhi – spazientendosi con mia madre che aveva sempre fretta e le raccoglieva quando erano ancora acerbe – in attesa di procedere solennemente alla raccolta e alla successiva distribuzione a noi figli.

Litigavamo con lui, per gioco, sulla distribuzione delle arance, accusandolo di non essere equo nel fare le parti, e persino di essere tirchio, di volerle tenere tutte per sé. Lui si arrabbiava per finta, e rideva, ma io sospettavo che un po’ gli dispiacesse davvero separarsi dalla maggior parte del raccolto. Poi il tempo era trascorso …

Alla fine di un calvario lungo due anni, disteso nel suo letto, la scorsa primavera mi aveva chiesto di chiudere le persiane della finestra che si affacciava sul giardino.

Oggi è una giornata così bella, papà – gli avevo detto sorridendo – perché non lasci che entri un po’ di luce?

Lui aveva girato la faccia verso il sole del giardino, verso la neve bianca delle zagare spruzzata sul verde intenso del fogliame.

Guarda! L’albero è tutto fiorito, quest’inverno sarà carico di arance …

Ed ero ammutolita davanti a quello spettacolo, trafitta improvvisamente dal pensiero che mio padre non sarebbe arrivato all’inverno, che il suo tempo si sarebbe fermato prima.

Si può essere molto crudeli, a volte, senza volere.

Lui aveva guardato fuori, poi aveva distolto gli occhi dalla chioma fiorita del ‘suo’ albero con un’espressione che non riesco a dimenticare. Con voce stremata mi aveva ripetuto di chiudere le persiane, ed io l’avevo accontentato senza più insistere, permettendogli di assopirsi per un po’. L’odore delle zagare era così inteso che stordiva, mi torna dentro coi ricordi mentre mastico lentamente.

Avrei voluto trattenerti fino a quest’inverno, papà, fino a questo raccolto. Avrei voluto vederti ancora felice, seduto in giardino con la palettina di plastica rossa per scacciare le mosche. Ogni tanto l’avresti allungata sulla testa di mamma fingendo di volerla battere, con la lingua stretta tra le labbra e un’espressione da duro di pasta frolla.

Avrei voluto che il tempo si fermasse, ma non è successo …

(2003)

Like a frozen land

I

cosa debba suggerirmi, questo foglio
bianco, non so. nulla, probabilmente.
perché nulla più si muove, in questo
muscolo corrotto che chiamano cuore.
nulla di nulla, niente più. si muore.

II

in una goccia di olio di sandalo
ho intinto un polpastrello
quindi ho strusciato l’indice, lentamente
sulla pelle dei polsi. dopo ho annusato
e sì, avevo un buon profumo.

non provo che silenzio, adesso.

III

alle tre passate, pensavo
il mondo è disteso a letto. dorme
chi si agita tra le lenzuola. dorme
chi si lamenta nel sonno. e forse russa
chi dorme. acciambellato nella cuccia
anche il cane.

IV

e poi c’è questo… non mi viene la parola…
questo lontano abbaìo che si trascina
da ore, lamentoso. e d’improvviso s’acquieta.

(2009)

Cosa può essere mai la Poesia?

Un ponte, ma anche l’esplosivo che i ponti fa saltare.
Un muro, una barriera, una porta sbattuta in faccia, un nodo che non si scioglie.
Un gioco, un salvagente, una mano tesa, un sorriso – la terapia contro il dolore di vivere.
Lo sguardo che ci tiene insieme – noi così diversi, così distanti, così sconosciuti gli uni gli altri, così soli.
Un suono che ci riconduce a casa, che ci fa armonia; la dissonanza in cui ci specchiamo, che ci spiazza.
Ciò che di noi rifiutiamo, da cui ci siamo allontanati o in cui ci tuffiamo per riconoscerci. Riemergendone bagnati di nuova consapevolezza.
Una via, il viaggio, una coperta sempre troppo corta e, insieme, la scoperta che immaginiamo debba salvare il mondo.
Un cataclisma, una furia devastatrice, oppure una pausa di luce tra la devastazione in atto e quella prossima a venire.
Un amore a cui siamo rimasti fedeli per l’intera vita, l’unico che sia rimasto sempre ad attenderci – anche mentre eravamo vivi, e ciechi e sordi e muti – e l’unico sempre disposto a riaccoglierci senza chiedere spiegazioni.

E quando la cerchi si fa sempre trovare. Come qui, tra le pagine di un libro:

<<“Con permesso, don Federico, un momento solo!” esclamò Vincenzino Aurispa, quasi toccando con le sue nere dita le labbra del vecchio bidello. “Vi giuro che questo trucco mi fa dannare! Spiegatemi un poco: don Giove c’era o non c’era nella nuvola?” “Era Giove l’intera nuvola! Era fumo, era vapore dalla testa ai piedi!”
” E scese raso terra? O con un forte vento sollevò Io, cioè lei, fino a lui? Come si regolarono, parliamoci francamente, per stare cuore a cuore tutti e due?
“Non si sa, è poesia.”
“Son indeciso se credervi o no, don Federico. Giove non si poteva travestire in qualche altro modo? Riusciva lo stesso nell’intento, anzi meglio, se diventava una mosca, o una pulce.”
“Non sarebbe stata poesia.”
“Caro don Federico, ma allora che imbroglio è, la poesia? Qualunque esagerazione, qualunque errore voi dite ‘poesia’ come si dice ‘indumenti’ alla dogana, e passate senza aprire la valigia?”
“Esattamente. La poesia è una fiducia completa, impossibile a descrivere. Se una poesia ti chiama ladro o becco tu rispondi: ‘Sissignore, servo vostro’ e rimani contemporaneamente disperato e felice. Intendiamoci bene, con la poesia non si ragiona; la poesia è il settebello di ogni fatto avvenuto, di ogni pensiero pensato e di ogni vivo vivente … avete capito?”
“No, ma pazienza” sospirò don Alfredo Tescione. “Si vede che la poesia è un mistero.”>>

(da:”Gli alunni del sole”*, Giuseppe Marotta, ed. BUR Rizzoli)

*Una sorta di mitologia greca rivisitata con spirito tipicamente napoletano e raccontata a puntate da un ex bidello ai ‘pezzenti’ suoi amici, tutti accomunati dalla curiosità di conoscere amori, imbrogli, tradimenti e battaglie degli antichi dèi, nei quali rivivono le proprie umane vicende. Napoli che diventa regno della fantasia e del ‘favoloso’, descritta in pagine memorabili. Vi consiglio di leggerlo.

Poesia da poltrona

Ezra Pound era di poco più giovane di mia nonna Teresina
ma è morto molti anni prima di lei. Mia nonna non si è mai mossa
da Largo del Rosso, a parte la volta che si è rifugiata a Qualiano
per sfuggire al vulcano che si diceva sarebbe sorto
nel porto. Ezra Pound invece è morto dopo aver viaggiato
a più non posso, ma senza aver mai visto mia nonna,
Qualiano e Largo del Rosso. Viaggiare, per paradosso
a Pound ha abbreviato la vita e negato una conoscenza.
Mia nonna non l’ha saputo. In entrambi i casi l’ignoranza
è stato il classico dono della Provvidenza, suppongo.

A tavolino

Una tazza sopra un piattino sopra fogli colorati
di cartoncino. Una piccola acquasantiera su cui siede
un puttino. Lo smartphone,un posacenere, occhiali ripiegati
su Pasolini. Librini di poesia, raccolte di cruciverba, un pacchetto
di sigarette, un accendino. Il cordless e un paio di forbici
sotto un tovagliolo di carta. La raccolta di Tomada recapitata
stamane dal postino. Una spillatrice sulla sagoma ritagliata
di un abetino. Dentro il grande piatto in ceramica che dovrei
sempre appendere. Un albero di Natale di scorta che incombe
sul portaconfetti. Una foto di mio figlio a due mesi e, a destra
quella di un matrimonio, in cornice. Il lume acceso
l’albero con le luci spente, e l’ultimo D di Repubblica
con la rubrica di Galimberti che pubblica la lettera
di un ragazzino. “Mi piace molto leggere – scrive – ma
nella mia classe sono il solo.” Chiede a Galimberti se possa
suggerirgli come cambiare la situazione. La solita, saggia
risposta di Galimberti. Il quale non può ma chiude comunque
con un’esortazione…

(Tutto questo disordine sparso sul tavolino
dovrebbe cambiare qualcosa nel mondo – potrebbe?
Se no, non scriverci poesie)
“Portarsi avanti con gli addii”: piaciuta fin dal titolo.

Hanno detto

hanno detto non è un gioco, è proibito giocare
hanno detto non si può dar ragione a chi ne ha da vendere
hanno detto chi cazzo è, non sa vendersi
hanno detto non sei tu che paghi, non sei tu che critichi
hanno detto non contrastare chi gestisce l’affare
hanno detto scrivi a comando, blandisci
hanno detto dopo un punto fermo ci va una maiuscola
hanno detto troppo lunga, hanno detto sfronda
hanno detto troppo corta, troppi aggettivi, la metrica
hanno detto prosastica, e hanno detto reitera,
hanno detto oh l’ anafora! hanno detto è un ossimoro
hanno detto il ritmo è spezzato, hanno detto è descrittiva
hanno detto è metafora, hanno detto troppo narrativa
hanno detto non suona, ricuci, ragiona
hanno detto riduci, colpisce hanno detto
hanno detto ti voglio più assertiva
hanno detto ma è barbara, è dada, è un haiku
dài, scrivi un sonetto! hanno detto strambotto
hanno detto è dialetto, cazzeggi, le virgole!
hanno detto anche senza dire, senza parere

a chi ha detto rispondo che ho scritto
che ho fatto che ho detto
solo ciò che volevo

Troppo rumore per nulla

Eccomi qua, rinchiusa come al solito in un box puzzolente. Dicono che sono un gioiello della meccanica, che valgo molto, che sono stata costruita per correre, per vincere.
Quel tipo strano che mi guarda compassionevole mi fa tenerezza. E’ il mio meccanico e non mi perde di vista un secondo. Ogni tanto mi si avvicina, finge di ispezionarmi con aria professionale e intanto mi parla con tono carezzevole, come un innamorato.
“Ehi, svitata! Te la do io una regolata ai bulloni, se non metti la testata a posto da sola!”, ridacchia affettuoso.

Da quel che capisco il mio destino è segnato. Il pilota giusto l’altro ieri gli ha detto che non conviene perdere altro tempo con me, e che è stufo marcio delle mie bizze. Il mio meccanico teme che i padroni della baracca decidano di rottamarmi, “benché sia un vero peccato”, a suo dire. Mah …
Non capisco perché mi chiami svitata. So soltanto che non ho intenzione di passare il resto della mia vita rinchiusa in questo angusto garage, insieme a mostri rombanti che non hanno altra prospettiva che quella di essere chiamati a girare in tondo lungo un anello di asfalto, giocando a fare a chi è più bolide.
Sgommano, sfrecciano, fanno un casino del diavolo: mi si ingrippano i pistoni solo a pensarci!
Che ci faccio io tra loro? Boh! E poi… che senso ha correre lungo una pista che non ha vie di uscita? Che significa tutto questo correre? E dove porta?
Quello che so è che sulla pista dove anch’io dovrei sfrecciare è tracciata una linea su cui è scritto TRAGUARDO. Ci passi tante volte sopra e non succede nulla. Credo ci sia qualcuno che conta le volte che sei passata su quella linea, ma non so spiegarmi perché. Ad un certo punto, il primo mostro rombante che passa sul traguardo “vince”. Ma vincono anche il secondo e il terzo, sia pure con meno clamore. Hanno disputato una gara di velocità. Il primo vince da primo, il secondo da secondo e il terzo … vabbè, vince da terzo, contento lui. E cosa si vince? Una coppa grande, una di media grandezza, una piccola, e fin qui mi è chiaro. Ci dev’essere anche un po’ di denaro tra i premi, ma non si vede. Invece si vede sempre una bottiglia di champagne da spruzzarsi addosso.
I piloti impazziscono di gioia se ricevono la coppa più grande. Perché? Mica lo so … Sul podio agitando le coppe festeggiano insieme al primo pure il secondo e il terzo, mentre si fanno reciprocamente la doccia con lo champagne e si mettono in posa per le foto. Roba da matti, no? Invece secondo il mio meccanico la svitata sarei io …
Mi dispiace per il mio pilota. E’ sempre molto incazzato con me. Sostiene che non rispondo ai comandi. Sarà così, ma … perché dovrei? Mi farebbe girare in tondo per ore ed ore. Non sarebbe giusto, io non voglio!
Appena il custode si distrae me la svigno. Mi dispiace pure per lui. Avrà delle rogne ma non posso fare diversamente. Me ne vado in giro per i fatti miei. Lentamente. Scelgo le strade meno frequentate, i posti più sperduti. Scelgo di andare piano. Voglio conoscere il mondo là fuori. Voglio incontrare le auto che non hanno fretta, quelle che non fanno gare di velocità. Voglio tenere i giri al minimo, per non disturbare i piccioni che tubano tranquilli. Sono già riuscita a liberarmi. L’ho già fatto, ma mi hanno sempre riportata qui.
Perché mi notano tutti, rossa come sono! Dicono che sono una Ferrari e mi guardano come un miracolo. Cacchio, sarebbe stato meglio essere una Cinquecento!
Ci riproverò: non mi rassegno a questa vita infame. Ci riproverò e ce la farò, stavolta. Anche conciata così, con questa carrozzeria che mi penalizza e questo motore che non vuole saperne di andare piano. E che fa troppo rumore per nulla.