Poesia al passo coi tempi

Ci vuole nulla a scrivere una poesia al passo coi tempi.

Ci metto un orario, magari le 14:55, il binario di un treno,

24, il codice di imbarco del biglietto aereo, EZY2341.

Scaduti. Prima di gettarli via, nel secchio della carta.

Ci metto una, in farmacia, col camice bianco e l’anima

da venditrice, o lo scontrino dei farmaci per l’onicomicosi.

Inutile, come i farmaci. Poi rifletto sull’evidenza che

le multinazionali non abbiano interesse a sconfiggere

infezioni fastidiose come l’onicomicosi, che la tipa

della farmacia dovrebbe rifiutarsi di battere.

Scontrini per farmaci inefficaci. Sul fatto che la somma

richiesta, e ci metto pure la somma – € 35.00 –

sia del tutto spropositata, sul fatto che io lo so

e che anche lei, la tipa, lo sa bene. Ma una poesia

scritta di corsa, così, tanto per mettersi al passo

coi tempi, si vergogna di se stessa, e tace.

(31 marzo 2014)

Ma tu lo sai cos’è un gatto?

Ma tu lo sai cos’è un gatto? Lo sai com’è fatto?
Ci hai mai giocato, lo hai rincorso, afferrato?
E ci hai parlato, lo hai accarezzato, magari contropelo
hai fissato i suoi occhi di cielo, col sole, col buio, col gelo
ti ha messo paura? E hai mai sentito i suoi artigli
nella pelle, e come ronfava d’amore, vero, quando
tu esattamente facevi quel che lui voleva?
Perché altrimenti non lo saprai disegnare, nemmeno
se io te lo spiego – un cerchio grande di sotto, e sopra
un cerchietto, due piccole orecchie appuntite, poi gli occhi
il nasino, e i baffi la coda le zampe – sembra tanto facile
ma quello che ne verrà fuori, per quanto tu faccia
per quanto tu provi, non sarà il tuo gatto.

Zitto!

Zitto, che quelli dormono, zitto! Non si sente più niente. A bordo solo il motore bisbiglia …

Ci ho pensato molto prima di registrarla. È una mia poesia in dialetto puteolano di cui avevo già pubblicato il testo nel mio blog e in una “nota” di Facebook. Si intitola “Zóitto!” ed è una preghiera al mare, scritta in italiano quando ero una ragazzina e poi “tradotta”, molti anni dopo, nella mia lingua materna, che era l’unica lingua parlata in famiglia. Ho usato frasi ed espressioni del gergo dei pescatori di “Rént’ ‘a teorre”, (il quartiere di Pozzuoli chiamato “Dentro la torre”, a cui apparteneva Largo del Rosso), il gergo che usava mio padre quando parlava del suo mestiere con i compagni di pesca. Perché volevo che quelle espressioni, quelle parole, le parole di mio padre, che era soltanto un pescatore analfabeta ma che “sapeva” del mare e della vita più di molte persone “colte” che ho poi incontrato nel corso della mia vita, che quelle parole non andassero perdute. Questo il mio intento nel registrare la mia preghiera. La musica che ho messo sullo sfondo è “Lullaby” (una ninnananna che mi sembrava perfetta) di Leo Sestili, che spero mi perdoni per l’appropriazione e che mi consenta comunque di usare la sua dolcissima musica, che mi ha colpita fin dalla prima volta che l’ho ascoltata.

Compleanni

il-compleanno-del-nonno

 

 

 

 

 

 

 

Ottanta candeline gialle e verdi
sulla torta del nonno, e tu
che piccolino le fissavi
seduto in braccio a lui che ti teneva.
Sei anni, col sorriso birichino
che per le grandi imprese metti su.
E aveva un’espressione concentrata
il nonno: non sulle candeline
ma sullo sforzo tuo che le spegnevi.
E aveva dentro gli occhi quel miscuglio
di compiacenza e orgoglio – tu eri il suo campione
– l’accenno di un sorriso come grato, sul viso:
le avevi spente tutte al posto suo.

La parola che attendo

Tu dimmi una parola, dimmi
quella che attendo
attenta a non fraintendere.

Dimmi soltanto quella
quella che voglio udire
e che non sento.

Dimmela, la parola che voglio
una parola sola, spiraglio
di futuro e grata sul passato.

Quale? Quale parola?
Quella che non ho inteso
che non mi hai detto, mai.

*

(Passava dalle mie parti e l’ho abbracciata. Piangeva, così le ho asciugato le lacrime con le mani, avevo soltanto quelle. Mi ha sorriso a labbra chiuse. Poi mi girava intorno, perdeva tempo, finché l’ho scritta… )

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(23 luglio 2003)