Senza voce

Di ciottoli e vetrine

Questo è adesso il mio cuore

un minuscolo ciottolo chiaro
– screziato di rosso scuro –
da spedire in dono

E se ne sta in vetrina
come una statuina di terracotta
priva di mani

come un ignoto sapore di pietra
o un minuscolo grumo di dolore
senza voce. Si scioglierebbe

serrato al tuo petto.

Hanno detto

hanno detto non è un gioco, è proibito giocare
hanno detto non si può dar ragione a chi ne ha da vendere
hanno detto chi cazzo è, non sa vendersi
hanno detto non sei tu che paghi, non sei tu che critichi
hanno detto non contrastare chi gestisce l’affare
hanno detto scrivi a comando, blandisci
hanno detto dopo un punto fermo ci va una maiuscola
hanno detto troppo lunga, hanno detto sfronda
hanno detto troppo corta, troppi aggettivi, la metrica
hanno detto prosastica, e hanno detto reitera,
hanno detto oh l’ anafora! hanno detto è un ossimoro
hanno detto il ritmo è spezzato, hanno detto è descrittiva
hanno detto è metafora, hanno detto troppo narrativa
hanno detto non suona, ricuci, ragiona
hanno detto riduci, colpisce hanno detto
hanno detto ti voglio più assertiva
hanno detto ma è barbara, è dada, è un haiku
dài, scrivi un sonetto! hanno detto strambotto
hanno detto è dialetto, cazzeggi, le virgole!
hanno detto anche senza dire, senza parere

a chi ha detto rispondo che ho scritto
che ho fatto che ho detto
solo ciò che volevo

A ogni giorno la sua morte

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Dov’è il mondo intorno a me? Dov’è ora il ruggito della guerra? I rantoli delle vittime non penetrano il silenzio ovattato che mi avvolge.

Io posso solo sapere di questa porzione di mondo che gli occhi bevono ogni giorno. Il cielo è ancora chiaro, ma l’incendio del sole al tramonto è già lì, disteso sulla sagoma cupa dell’Epomeo.

E posso solo dirti di quel pino solitario che svetta sui campi che mi separano dalla distesa d’acciaio del mare. Dello spettacolo trionfale di sfilacciate nubi illuminate dagli ultimi bagliori, eppure già rassegnate a confondersi nell’oscurità che tutto avvolge, di sera.

Si spegneranno tutti i colori, come ogni volta che viene la notte. Ma, prima, tutto virerà nel viola, e quelle nubi dovranno addensarsi come colate di cenere.
E già si alza il vento, e gli spifferi sanno d’inverno e di gelo.

Se fossi qui potresti vedere la sedia nell’angolo del terrazzo, i cuscini gialli disposti a ventaglio a far da cuccia al cane. Saresti sorpreso per l’erba che cresce nella ciotola di terracotta, tripudio di vita nonostante il lungo abbandono. Forse diresti che è il suo giusto prezzo.

Ti accorgeresti dello sfrecciare rapido dei passeri che si affrettano a tornare ai nidi? E mi ordineresti con un sussurro prepotente fra l’orecchio e il collo di alzarmi e seguirti altrove?

Annega nel sangue questo giorno di gennaio. E non riesco a raccontarti altro che la sua splendida morte.

Agosto in spiaggia, e passa Mustafà

Agosto in spiaggia, e passa Mustafà.  Che è solo un po’ più grande di mio figlio. Diciassette anni appena e qui non ha nessuno. Che chissà da dove viene, chissà com’è arrivato. Che ha i denti macchiati – guardalo bene mentre parla – che non ha l’apparecchio. Che ha già la pelle vizza di un vecchio, Mustafà. Che ha sete e chiede da bere.  Che ha tutto questo camminare sulla spiaggia, nelle gambe, tutto questo procedere senza filtro, senza protezione, col suo carico di stracci legato sulla schiena.

Il nodo, vedi, non riesce a scioglierlo: mi chiede l’accendino per bruciare la corda e liberarsi della soma.

Foto di Dario Di Franco
Foto di Dario Di Franco, prelevata dall’album “Venditori di sabbia”

Mustafà che è venuto in Italia da solo. Che a Ponticelli ha trovato un posto da apprendista carrozziere. Che proverà da settembre a cambiar vita, purché la fortuna lo aiuti.

Che mi chiede di fargli scudo con le mani, perché il vento continua a spegnere la fiamma che dovrebbe spezzare lo spago.

Che ha una brutta cicatrice sulla fronte e non saprò mai cosa gli è successo. Che non riesco a far andar via.

Penso  a sua madre, mentre si riposa all’ombra:  sono sua madre anch’io.

Mustafà – potrei chiedergli di venire a casa … – figlio dell’Africa che ho pudore di abbracciare.

Che mi fissa con occhi d’ambra e mi dice di sé, e pare aspettare. Mentre sa già che lo aspetta Ponticelli, e se va bene un posto letto in periferia.

– Prendi il vestito arancione, signora: è il più bello …

Foto di Dario Di Franco
Foto di Dario Di Franco

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Foto di Dario Di Franco,  dall’album  “Venditori di sabbia”

Una mosca è una mosca

. una mosca è una mosca .
:  ali leggiadre due  – da sfoggiare
. zampe con cui attaccarsi ai vetri: sei
– due delle quali da sfregare al sole
oppure da utilizzare per grattarsi.

. noiosa quanto basta se impazzisce
è un elefante nel mondo degli insetti
–  ha una proboscide minuscola
per  suggere letame e nettare –
ma è una mosca, pur sempre una mosca.

. questa creatura  nella sua interezza
– occhi composti  per vedere  meglio
famelica passione per la merda
ronzio ubriaco tra i filari d’uva
larva dentro la pancia di un cadavere –
mosca è chiamata – senza tenerezza …

. ora:  una mosca è soltanto una mosca
: un capo mobile,  un torace  evidente
un addome  poco pronunciato
: parrebbe una  creatura equilibrata …

ma io la scaccio e lei non s’allontana
– mi ronza intorno quando meno voglio –
quindi le do la caccia: attendo
immota che mi giunga a tiro – poi
senza pietà la schiaccio.

(2010)

Sinfonia della Terra

LUX in FABULA – RIONE TERRA 1968 – “Sinfonia della Terra” di Lorenzo Lamagna; “A Serenata d’ ‘o marenar” di Aniello Califano – Salvatore Gambardella, 1903; “Se po sunà” di Gianni Lamagna – Musiche eseguite da Lorenzo Lamagna (clarinetto) Gianni Lamagna (chitarra) Giosi Cincotti (fisarmonica) Arcangelo Michele Caso (basso). Riprese sonore Arcangelo Michele Caso.

La prima volta che sono ‘salita’ al Rione Terra, nei primi anni ’70 del Novecento, la rocca era già disabitata, ma ancora accessibile.  Ho attraversato i vicoli deserti insieme alle mie compagne di scuola e qualcuno, dall’alto di un balcone pieno di sterpaglie, ci ha lanciato addosso un porta-sapone di metallo, col chiaro intento di mandarci via. Eravamo un gruppo di ragazzine e siamo scappate. La seconda volta tutti gli accessi al Rione erano sbarrati, ed era il 1984. Lo so perché la vista di un muro che impediva l’accesso al Sedile di Porta, l’ingresso principale al Rione Terra, mi spinse a scrivere questi ‘versi’.

Rione Terra

Un giorno quasi per caso
percorro una strada in salita
E in cima trovo un muro
di cemento armato
una barriera insormontabile
che preclude l’accesso

(A cosa mai servivano tutti quegli uncini
quei cocci di bottiglia lassù in alto
se non a separare la mia gente
dal gusto antico delle sue radici?)

Nel muro
ben serrata
una porta di ferro

Oltre il muro tutto un mondo vuoto
ormai privo di voce
occhi neri di finestre spalancate
come spettrali bocche stupite
e balconi infestati di erbacce
orfani di danze di panni stesi

E’ in scena il silenzio spettrale
di un palcoscenico deserto
Brandelli di tende al vento
desolato sipario

(Giaceva dimenticata
chissà in quale tasca
in quale testa smemorata
una chiave)
(1984)

N.d.A.
Il Rione Terra era il cuore antico della mia Pozzuoli. Fino al marzo del 1970 pulsava di vita, poi fu evacuato e recintato, dopo una crisi di bradisismo che fece sollevare il suolo del mio paese di circa due metri. Da oltre trent’anni aspetta di essere restituito alla memoria dei Puteolani, che nel frattempo sembrano averne dimenticato l’esistenza. I lavori di restauro, iniziati da molto tempo e non ancora conclusi, hanno portato alla luce un patrimonio archeologico di valore inestimabile, sepolto da duemila anni sotto il dedalo di vicoli e di palazzi che vi sono stati costruiti sopra. Sono stati individuati e resi visibili i tracciati delle strade, i resti delle case e delle taberne, persino le macine e i forni che fornivano la farina e il pane agli abitanti della Puteoli di epoca romana. In un futuro ormai prossimo, almeno si spera, il Rione Terra sarà aperto interamente al pubblico. Già adesso, in determinati periodi dell’anno vi giungono visitatori provenienti da ogni parte del mondo e alcuni palazzi vengono utilizzati in occasione di eventi culturali quali mostre, convegni e spettacoli. E’ da escludere un rientro della popolazione nei palazzi restaurati, che diventeranno uffici del Comune, sedi di associazioni culturali, locali per mostre ed eventi culturali.
Se volete saperne di più, e magari organizzare una vacanza che includa un tour nei Campi Flegrei e una visita a Pozzuoli, potete documentarvi utilizzando un qualsiasi motore di ricerca. Scoprirete che nella mia terra vi sono vulcani, solfatare, acque termali, monumenti archeologici di eccezionale importanza come l’anfiteatro Flavio e il Tempio di Serapide, e anche la nuova Pompei della Campania, sotto il Rione Terra.

(2003)

Notte di San Giovanni

Era la notte di San Giovanni
– si dice che accadano prodigi
quella notte – e tu dormivi
perso nei tuoi sogni.

Ti vedo rannicchiato nel tuo letto
– minuscolo involucro di ossa e sangue –
il bianco scorza d’aglio dei capelli
sul bianco del cuscino. Dormivi.

Racchiuso nella tua fragile pelle
come un vecchio feto stanco.
[ Caparagliéllo … Scarrupiéllo…
‘U pate móije … Papà … ]

Era la notte di San Giovanni
– una notte d’inizio estate – e tu morivi.

Oi mare, mare scóuro, mare nóiro

*

Zóitte, ca chille ròrmeno: zóitte!
Nun se sente cchiù niente:
a bbuorde ciuciuléja sulo ‘u muteóre …

Oi mare, mare scuro, mare nóiro
Fa’ uocchie a pàteme , ‘a saera.
Siente ,‘i ‘stu core stróitto, ‘u chianto e ‘a vaoce.
Nn’u fa stancà. Falla veni’ liggèra
chella fatica pesante ‘i marenaro;
liégge fa’ chillu passo d’omme ‘ncreoce.
Pigliate ‘u fummo ‘i tutt’i sigarrètte:
puortete chella teosse, chill’affanno
d’ ‘u pate móije.

‘I mmane, all’uocchie, ‘a varca d’oro sòja
jóinche d’argiento: vuttale ‘nchèsse, ‘i póisce
a cciénte a cciénte!

E statte quieto, nun t’arraggià cu jóisso
falle turnà ‘a ‘sta casa ambrèsse ambrèsse
Arà ca lampe e jì trèmme: trèmme
a bberé stanotte comme fragne
ll’onna ‘i Mllèno …

Zóitte, ca chille ròrmeno: zóitte!
Nun se sente cchiù nniente:
a bbuorde ciuciuléja sulo ‘u muteóre …

Pigli’ ‘u temmone tu, oi mare nóire.
E mitte ‘nterra ‘a preóra.

*

Traduzione

[Zitto, che quelli dormono: zitto!
Non si sente più nulla:
a bordo bisbiglia soltanto il motore …]

Oh mare, mare scuro, mare nero
tieni d’occhio mio padre, la sera.
Ascolta , del mio cuore stretto, il pianto e la voce.
Non stancarlo. Rendi leggera
quella fatica pesante di pescatore;
lieve rendi il suo passo d’uomo in croce.
Prenditi il fumo di tutte le sigarette:
portati quella tosse, quell’affanno
di mio padre.

Le sue mani, gli occhi, “la barca d’oro sua
riempi d’argento”: lanciali a bordo, i pesci
a cento a cento!

E resta quieto, non arrabbiarti con lui;
fallo rientrare a casa presto presto.
Il cielo è pieno di lampi e io tremo:
tremo a vedere stanotte come si frange
l’onda di Miseno.

[Zitto, che quelli dormono: zitto!
Non si sente più nulla:
a bordo bisbiglia soltanto il motore …]

Prendi il timone tu, oh mare scuro
E dirigi verso terra la prua.

Nota: << ‘A varca d’oro sòja / jóinche d’argiento>>

era contenuto in una vecchia ninna nanna che cantava mia madre e che iniziava con “ Oi ninna ninna nonna oi nunnarella / ‘u lupo se magnatte ‘a pecurella”.