E’ un venerdì di aprile del 2013, una sera finalmente tiepida dopo settimane di pioggia e freddo.
Sto affacciata alla ringhiera di un terrazzino che guarda su Largo Emporio.
Un tempo doveva essere il balcone di una casa; adesso dà luce ad una delle salette al primo piano di un ristorantino in cui sono stata invitata a festeggiare le nozze d’argento di una coppia di amici: un localino che propone una cucina basata su piatti di pesce a basso costo e che pratica tariffe adatte alle tasche di un’impoverita classe media e a palati poco schizzinosi.
Questo è solo uno dei tanti ristorantini del centro, che si susseguono nei vicoli della Pozzuoli vecchia occupando quelli che furono bassi, botteghe, malazè, quartini di pescatori, artigiani e piccoli commercianti che un tempo vivevano in questi luoghi.
Largo Emporio, a quei tempi, era lo spazio all’aperto adibito a mercato del pesce del Comune di Pozzuoli.
Di mattina era uno spettacolo di vita, di suoni e di colore fatto di ombrelloni, di tinozze di legno tinto di bianco e azzurro,di spruzzi e secchiate di acqua di mare del porto; un concerto di voci sgraziate, di trattative rituali, di grida, di inviti, di richiami di venditori: “ ‘Alóice! Accattàteve ‘alóice!! ’I bbotte ‘nciélo, ‘i sbatte ’ntèrra e songhe sèmpe scintillante!”
Dopo il mercato, specie d’estate, dal selciato si sprigionava un fetore nauseabondo: un misto di legno fradicio e nafta, di pesce fetente, di salmastro, di ruggine e di urina che evaporava in miasmi insopportabili, quando il sole picchiava sui basoli e sullo spiazzo lasciato deserto.
In questa parte del paese, tra i vicoli affacciati su Largo Emporio e il Canalone, ci abitavano tre delle mie compagne dell’Istituto Magistrale, nelle cui case ho trascorso interi pomeriggi durante gli anni dell’adolescenza a partire dai primi anni Settanta, nel periodo immediatamente successivo alla prima crisi bradisismica,culminata con lo sgombero del Rione Terra e lo spopolamento – quella volta solo temporaneo – dell’intera città bassa.
Al rientro da Qualiano, dopo alcuni mesi di allontanamento dal paese e da Largo del Rosso, avevo circa dodici anni. Con la riapertura delle scuole cominciai a riprendere confidenza col “mondo”oltre Largo del Rosso e la contrada di “Rint’â Torre”, in cui la mia famiglia era radicata ed in cui poi ho abitato fino al 4 settembre del 1983, il giorno della prima forte scossa di terremoto dovuta alla seconda crisi bradisismica, che trasformò per anni tutta la Pozzuoli bassa in una città fantasma.
Lina, Rosaria, Margherita.
Delle mie tre compagne di scuola di un tempo, soltanto Rosaria abita ancora nel centro storico: “Rint’ â Torre”, vicino alla chiesa di San Marco.
Lina si è trasferita da Largo Emporio a Bacoli; Margherita da Vico Caldaie al Rione Solfatara.
Io abitavo a Largo del Rosso, vicino al Tempio di Serapide. Nel tempo di prima attraversavo Via Roma e andavo a fare il bagno alla spiaggia della Sirena. Da lì sono finita a Monterusciello.
Nella stradina che si è creata tra la fila di palazzi e quella dei gazebo allineati di fronte al parcheggio, vedo transitare i ragazzi che agiteranno la movida notturna tracannando cicchetti serviti al modico prezzo di un euro, e i clienti che invece possono permettersi una cenetta a base di piatti di pesce e che hanno già prenotato un tavolo da “Bobò” o dal “Tarantino”.
Pochi, in questo tempo di crisi.
Il terrazzino a cui sono affacciata sta proprio sopra uno dei ristoranti che ancora si ostinano a fare cucina di qualità e preparano piatti col pescato selvatico procurato dalle barche superstiti di quella che fu la marineria di pesca puteolana. Che pagano cara la materia prima e che poi praticano prezzi alti per buone ragioni. Ma che forse proprio per questo sono destinati a soccombere ai take away e ai fast&cheap food.
Mentre sono affacciata vedo arrivare, dall’ ingresso della stradina che dà sul mare, uno che riconosco, uno di Abbasci’ û Mare. Magro, coi capelli sale e pepe, da tutti chiamato Ciacione.
E’ amico di mio cognato e conosce bene i miei fratelli, ma di lui so nulla o quasi, a parte il nome, o meglio, ‘u contranomme che ha sostituito il suo nome anagrafico.
Avanza guardingo nella stradina, tenendo sotto braccio un cassettino di pesci appena pescati tra cui spiccano grossi cocci e scorfani ancora vivi.
Si ferma proprio sotto al terrazzino su cui sono io, e contratta sottovoce col ristoratore per venderglieli. Alla fine glieli lascia, e l’uomo li sistema su un letto di ghiaccio dove i pesci cominciano a contorcersi.
Mentre Ciacione si allontana, mi pare che alla sua sagoma snella si sovrapponga quella di mio padre, coi suoi stivali di gomma verdognola in cui erano infilati i pantaloni di tela, ‘u curpèttö di cotone pesante a maniche lunghe e il basco di feltro blu sulla testa mezza pelata.
Cammina tranquillo tra la folla del venerdì sera, pare invisibile tanto è ignorato dagli altri passanti, poi svanisce nel buio senza lasciare traccia di sé, quasi fosse un alieno capitato per sbaglio in un mondo lontano anni luce dal suo pianeta di origine. Alieno, come Ciacione.
Un tempo questo era il ‘loro’ quartiere, abitato da gente semplice come loro, che parlava la loro stessa lingua, che conosceva ogni angolo di questo mare e che sapeva indicarne i posti usando gli stessi toponimi. Che se un altro pescatore, sciogliangiarre e solitario che fosse o tartarunàro e di compagnia come quelli delle lamparelle, gli avesse detto che aveva pescato ’Rint’a Badessa, o ‘Ncopp’ ’i Mmèrle, o A luànte î tubbe, ‘Nt’’u vasciéllo, o ‘Nt’ a Chiaia ’i Cumma, loro sapevano esattamente dov’era quel posto, e gli altri pure, ma nessuno che non fosse un pescatore avrebbe capito di che stavano parlando.
Ciacione. Potrebbe essere la storpiatura del suo vero nome, o di chissà quale epiteto affettuoso con cui lo si chiamava da bambino. O forse, da adulto, gliel’avranno affibbiato i compagni di pesca, come era accaduto a mio padre. Da “Vincenzo”, che in puteolano era Viciénzo, era poi diventato in bocca a sua madre e a sua moglie soltanto Scarrupiéllo (“Scarrupié!”), e in bocca agli altri pescatori soltanto Caparagliéllo, in quanto figlio di Capa r’aglio, mio nonno.
Quale sia il vero nome di Ciacione lo ignoro. Il suo contranomme ha però il suono dell’acqua agitata con le mani, il suono che fa il corpo di qualcuno che nell’ acqua ci è nato e che per questo ci sguazza: uno ca se ciacéjia, per l’appunto.
Mentre lo guardo allontanarsi e svanire, mi punge in gola a sorpresa un doloroso pensiero: “E’ diventato uno straniero in casa sua senza nemmeno accorgersene …”.
E’ il sopravvissuto di un mondo scomparso. Come lo siamo noi, esuli a Monterusciello o al Rione Toiano. Come forse lo erano già mio padre e i suoi compagni di pesca a loro insaputa fin dal tempo di prima. Prima dell’esodo.
Prima che Pozzuoli fosse sventrata. Prima che fosse esposta al mondo come un coccio o uno scorfano dai colori smaglianti del pesce appena pescato, con l’occhio che pare vivo, come quelli rimasti a fare bella mostra di sé, irrimediabilmente morti, sul letto di ghiaccio del banchetto di Bobò.