

Panorama con panni stesi (foto mia).
È quasi l’alba. Vorrei non dover mai andare a letto. Si sta bene di notte, si sta da soli. Si sente il vento che sbatte contro le tapparelle, il tu-tu della cornetta staccata del telefono per evitare che al mattino suoni la sveglia. L’avevo attivata una sera, pensando che sarebbe partita soltanto il mattino seguente. E invece ha continuato a partire ogni mattina, col trillo insistente di chi non gliene può fregar di meno, se tu non riesci nemmeno ad aprirli, gli occhi, figuriamoci ad alzarti di botto. E parte tutti i giorni, compreso il sabato e la domenica, e non riesco più a disattivarla se non staccando la fottutissima cornetta!
Staccare. È l’unica strategia che funzioni, pare …
Credo di non aver mai superato il dolore per la separazione forzata da mia madre. Altrimenti, non si spiegherebbe com’è che non riesco a staccarmi dalle persone, nemmeno se si tratta di estranei come questo Scalpellini, con cui in fondo ho poco o nulla da spartire. E’ un tratto patologico della mia personalità, credo. Le persone normali si liberano facilmente di ogni impiccio relazionale; io mi sento dilaniata da un dolore indicibile ogni volta che qualcuno mi sbatte in faccia un rifiuto.
A volte cerco di acchiappare il ricordo, di me abbandonata in una culla di metallo in uno stanzone gremito di culle occupate da bambini piangenti. Ma sarebbe più giusto dire che cerco di ricostruire la scena che ho ‘visto’ tante volte, quella che ho immaginato ascoltando i racconti di mia madre …
Perché sono stata strappata alle sue braccia? Devo essermelo chiesto, tra un singhiozzo e l’altro. Dov’è il calore animale del suo corpo, dov’è il suo capezzolo? Dovevo essere abituata ad attaccarmici ogni volta che avevo sete, e freddo, e sonno … e paura … Dov’è casa mia? Il mio seggiolone, i miei fratelli … ‘Te-éta’ … Era Natale, eravamo tutti intorno alla tavola, io nel seggiolone mangiucchiavo una ‘castagna del prete’, così diceva mia madre. Perché adesso sono qui? Devo essermelo chiesto, chissà, o devo averlo pensato. Devo aver provato a portare una mano alla bocca e … Perché non riesco più a muovermi?
Maammaa! Ammesso che si possa riuscire a pensare, a soli tredici mesi e col terrore addosso. Chi non capisce non pensa, un bambino a quell’età non capisce: piange e basta.
Allora immagino che piango. E’ stato per il troppo piangere che mi sono addormentata. Ecco, adesso sono in quella culla di ferro e metto una pausa alla paura. Quando mi sveglio riprendo a piangere ma non mi esce più la voce. Intorno a me sento solo lamenti, urla disperate e voci rauche e gementi.
Ancora qua, sto?? Cos’è, questo grande incubo pieno di bambini soli? Un bambino deve stare con la sua mamma … Dov’è mia madre? Mamma … Mamma! Maa!!
Passa chissà quanto tempo … chissà se ho smesso mai di piangere e di chiamarti. Quando sei entrata in quello stanzone – quando finalmente ti hanno permesso di entrare nel reparto in cui venivano ricoverati a forza i bambini ammalati – tu non riuscivi a distinguermi tra tutti quei piccoli corpi artigliati dalla paralisi. Ero una bambola flaccida, tra tutte quelle creature aggredite da un invisibile, microscopico mostro.
Prima che mi prendesse, io avrei potuto tenderti le braccia e avvinghiarti; avrei potuto scavalcare la sponda di quella culla, e sgambettare tra tutti quei corpi inerti, per raggiungerti … Ma ora non potevo che chiamare ‘Ma-a …’, tra un singulto e l’altro, e ogni respiro era già un’impresa.
Non avrei potuto arrivare in fondo a quella lunghissima parola: Po-lio-mie-li-te.
L’ultima grande epidemia di poliomielite in Italia, e tutti quei bambini tra le ultime vittime, tante. Trentaquattromila bambini. Migliaia di piccole vite segnate. La mia, tra quelle vite. Sono qui, mamma… mi vedi ?? “Màa … “
Tu avevi un camicione verde, una cuffia sui capelli e una mascherina a coprire il volto, ma io ti ho riconosciuta. Ho singhiozzato quel “Mà-a …” arrochito e sorpreso, e devo averci messo un po’ di rimprovero in quel richiamo, perché tu mi raccontavi di aver affrettato il passo e di esserti diretta verso di me, senza più alcun dubbio. Mi hai tirata su di peso dalla culla e mi hai stretta al petto. Poi ti sei accovacciata sul pavimento, hai tirato fuori un seno gonfio e dolente, che dicevi ingorgato di latte non munto, e mi hai permesso di svuotarti la mammella.
Io ti divoro, mamma! Ti succhio anche l’anima. Non lasciarmi mai più, non lasciarmi! Come hai potuto permettere che mi portassero via, come hai potuto!? E succhio avida, mentre tu versi a fiotti nella mia bocca tutto il latte di cui mi avevi privata.
Dovevi nascondermi in qualche angolo buio, dovevi sbattere fuori di casa il dottore che ha disposto il ricovero: perché non l’hai fatto, perché hai lasciato che mi prendessero, brutta stronza!? Tu piangi e mi tieni stretta tra le tue braccia, io mugolo mentre ti strizzo il petto. Poi cominci a dondolarmi sussurrando una nenia antica, la stessa che canterai pure a mio figlio, tanti anni dopo. Tu mi canti la tua ninna nanna, mamma, quella che parla di un lupo che mangiò la pecora e di barche che tornano in porto piene di pesci d’argento; e io mi lascio cullare dalla tua voce lamentosa, io mi addormento.
Mamma con me in braccio, credo nel giardino dell’ospedale dov’ero ricoverata, dopo la polio.
“Eh sì! La vita è bella: bisogna ridere a tutta bocca solo per il fatto di essere nati.”: non faccio che ripetermelo.
Solo che ogni tanto, a sorpresa, arriva una randellata, e allora è comprensibile che il sorriso si smorzi.
Qui avevo appena affrontato il primo “lutto” della mia vita: avevo provato l’angoscia di una separazione, avevo già pianto tutte le mie lacrime (ma non sapevo che la fonte delle mie lacrime era e sarebbe rimasta inesauribile) fino a diventare afona. Poi, per fortuna, avevo visto riapparire mia madre, il cosiddetto “oggetto d’amore”, e m’ero un poco tranquillizzata.
Chissà a che pensavo. M’ero pigliata una paura terribile!!
Se fossi quella di adesso mi direi: “Vabbuó, il peggio è passato …”
Secondo me ero già quella di adesso.
Voi umani chiudete porte o le aprite
: avete mani a pollici opponibili, che usate
per separare spazi, a vostro piacimento.
Noi cani abbiamo zampe per correre
per segnalare che una palla è nostra
per indicare scatole, che avare custodiscono
tesori a noi preclusi, chiedendo l’elemosina
di un gesto – la lingua sempre pronta a baciare –
di una carezza, e siamo sempre eternamente grati
quando del nostro amore vi accorgete
quando del vostro amore date segno.
Le vecchie storie stese sopra i fili
come lenzuola messe ad asciugare
contemplano rammendi e sdruciture
sbiadite tinte, righe di memoria
aloni refrattari al candeggio.
Si negano alla pioggia,
si rivoltano al sole
le vecchie storie, stese.
Ottanta candeline gialle e verdi
sulla torta del nonno, e tu
che piccolino le fissavi
seduto in braccio a lui che ti teneva.
Sei anni, col sorriso birichino
che per le grandi imprese metti su.
E aveva un’espressione concentrata
il nonno: non sulle candeline
ma sullo sforzo tuo che le spegnevi.
E aveva dentro gli occhi quel miscuglio
di compiacenza e orgoglio – tu eri il suo campione
– l’accenno di un sorriso come grato, sul viso:
le avevi spente tutte al posto suo.
Questo è adesso il mio cuore
un minuscolo ciottolo chiaro
– screziato di rosso scuro –
da spedire in dono
E se ne sta in vetrina
come una statuina di terracotta
priva di mani
come un ignoto sapore di pietra
o un minuscolo grumo di dolore
senza voce. Si scioglierebbe
serrato al tuo petto.
La differenza è nello sguardo. Qui, ha righe
sottili il lenzuolo che si commuove alla brezza
della controra. Il giallo dei cuscini gli fa eco
con un sospiro quieto. Lontano, invece, appena
si distingue la sagoma impregnata di foschia
di un’ isola vulcano. Tra qui e lontano, sta il muto
verde del pino. La differenza è nello sguardo.
Le altre scaglie sono qui:
Ti conficco puntute parole nel petto
Ti spezzo queste parole nei fianchi
Ti faccio uno strascìno di male parole
Ti batto a sangue con parole clave
Ti pugnalo a morte con lame di parole
Oppure te le semino negli occhi
Perché germoglino come parole nuove
ne güzel blues ne güzel karanlık
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