Ce ne jamme?

Ce ne jamme? Nèh… ce ne jamme?
E tu c’ ‘a capa rice ancora sóine.
Cu ll’uocchie rire e dóice: – Nun è ovèro
ma facimme a bberé ca ce creróimme
ca ce ne jamme…

Ce ne jamme? Ja’, ca te port’ a bberé
ca l’onna fragne, ca ’u sole ancora
l’acqua fa fuchïà quanno fa sàera
e te port’ a sentì l’addore ‘i mare
’ncopp’ â lampàra.

Tu faje sine c’ ‘a capa e ancora róire.
Riro pur’ ije, papà, pecché ’u ssapóimme
ca ce ne jamme, ovèro.

*

Traduzione:

Ce ne andiamo? Dài… ce ne andiamo?
E tu con la testa accenni ancora di sì.
Con gli occhi ridi e dici: non è vero
però facciamo finta di crederci,
che ce ne andiamo…

Ce ne andiamo? Adesso ti porto a vedere
che l’onda si frange, che il sole ancora
l’acqua fa scintillare quand’è sera
e ti porto a sentire l’odore del mare
sulla lampara…

Tu accenni un sì e ancora ridi.
E rido anch’io, papà
perché lo sappiamo
che ce ne andiamo, davvero.

Note:

* Mio padre era nato nel 1916 ed aveva vissuto a Largo del Rosso fino all’ottobre del 1984. Dopo lo sgombero ci fu assegnata una roulotte in un campeggio di Varcaturo, ma non riuscimmo a prenderne possesso perché un’altra famiglia l’occupò abusivamente. Per alcuni mesi fummo ospiti di mio fratello Peppino, al rione Toiano, poi ci trasferimmo a Quarto, dove la Protezione Civile ci assegnò un appartamento. A Monterusciello arrivammo nel 1987, quando ci fu assegnata la casa popolare in sostituzione di quella che avevamo dovuto lasciare a Largo del Rosso. Nel 2002 mio padre si ammalò e morì nel giugno del 2003. Per tutto il tempo che trascorse dall’esodo alla sua morte, mio padre non smise un solo giorno di ‘scendere’ a Pozzuoli. I primi anni vi si recava di mattina e di pomeriggio, poi solo di mattina, utilizzando l’autobus n. 11. Nel periodo in cui fu malato lo accompagnavamo noi, in macchina, nei pomeriggi di sole. Quando era già malato, ormai allettato, colui che ogni pomeriggio, nell’entrare in camera sua, gli chiedeva “Ce ne Jamme?” era mio fratello Peppino, il minore dei mie tre fratelli maschi.  Quel ” ce ne jamme?” era come un gioco tra loro due. Mio padre per rispondere a quel saluto accennava sempre di sì, anche quando ormai era morente.

** Un sentito grazie a Giovanni Abete, professore di filologia moderna presso la Federico II di Napoli ed esperto di dialetto puteolano, per i suggerimenti relativi alla trascrizione della complicata fonetica della mia lingua materna.

Il libro di racconti e testi poetici scaturiti da interviste a Puteolani che, a distanza di trent'anni dall'ultima crisi bradisismica, culminata con la scossa del 4 ottobre 1983, a seguito della quale tutta la zona costiera della città vecchia (la Pozzuoli bassa, abitata essenzialmente da pescatori, proletari, artigiani e piccoli commercianti) fu sgomberata. Trentadue storie, trantadue narratori e trantadue narrati che rivivono i momenti più drammatici di un esodo, che da molti abitanti del centro storico, poi trasferiti a Monterusciello, fu vissuto come una vera e propria deportazione.
Il libro di racconti e testi poetici scaturiti da interviste a trentadue Puteolani che, a distanza di trent’anni dall’ultima crisi bradisismica, culminata con la scossa del 4 ottobre 1983, a seguito della quale tutta la zona costiera della città vecchia (la Pozzuoli bassa, abitata essenzialmente da pescatori, proletari, artigiani e piccoli commercianti) fu sgomberata.
Trentadue storie, trentadue narratori e trentadue narrati, i quali rivivono, incontrandosi e parlandone, i momenti più drammatici di un esodo che da molti abitanti del centro storico, poi trasferiti a Monterusciello, fu vissuto come una vera e propria deportazione.

Che tu sia per me il coltello

(In libreria, quel titolo mi ha attraversata. Ho preso il libro tra le mani, l’ho sfogliato e mi sono detta caspita Grossman, hai scritto una storia che non voglio vivere… )

Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe andata così.
Io predìco il futuro, ma faccio finta di non saperlo. Dico che sto scherzando. Dico che un demone mi danza nel cervello.
E’ il dubbio, dico, che tu mi abbia sempre mentito. Lo sei stato, amore, quel coltello. Hai aperto pieghe di me che non sapevo neppure di avere. E lo hai fatto così, standotene in silenzio. Hai chiesto che mi arrendessi al bisogno di un bacio. Mi hai invitata ad un viaggio, ad un volo. Ed io, che non volevo più viaggiare, perché di quel viaggio conosco la destinazione; io, che non volevo più volare con ali zoppe e stanche, ci ho provato ancora.
Non chiedevo altro che di arrendermi al bisogno di un bacio. Così ti ho chiesto di darmelo, il bacio che aspettavo. Ed era proprio quello, il tuo. Hai presente quando le labbra combaciano perfettamente? Hai presente. E quando sono completamente arrese, che non ci sono barriere che tengano, hai presente? Hai presente, sicuro.
Ma fin da subito ho avuto paura che fosse una follia, l’amore che avevi saputo far scaturire dai miei se e dai miei ma e dai non è possibile, non ci credo.
Avresti dovuto leggerlo sulla mia faccia stupita, tra le righe della mia inutile ironia, dietro le mie frecciate sarcastiche, o nei racconti con cui cercavo di spiazzarti, che sotto ero nuda, esposta. E forse l’hai letto, perché tu capisci più di quanto lasci intendere. E se non hai rinunciato ad essere quel coltello, è perché anche tu eri perso nel lancio, e non potevi fermarne la corsa.

Bene, io sono qui coi miei tagli. Nessuno si è chiuso. Sono qui, senza buccia, senza alcuna difesa.
E tu adesso fammi tacere. Lascia che sia muta carne vibrante e piena. Rendimi i succhi, gli odori, i sapori: restituiscimi la pace di quel bacio.
Sii il mio coltello affilato, amore, e penetra senza pietà fino in fondo. Ancora, ancora, ancora, fino alla morte che verrà, di sicuro. Salvo che io non ci ho messo una data, a quella morte certa.

E tu pure, se avessi intenzione di fissare scadenze, scrivi “mai”, e penetrami per sempre.

(Un bel po’ di tempo fa, una notte…)