Treni

I treni si fermano nelle stazioni
perché qualcuno vi salga e vada
dove deve andare, o dove vuole.
I treni ripartono perché qualcuno
resti a guardarli andare, perché
qualcuno li perda per un pelo.

E spesso partono un minuto prima
del tempo speso a trascinar bagagli
o a liberare gambe prigioniere
di un ristorante in centro.

 

Mariella Tafuto – Rothenburg, 2005

 

 

 

 

Sembra far la civetta

Sembra far  la civetta, stanotte
l’acqua di mare con la chiglia
del gozzo.

[Calma di vento, borbottìo del motore]

Liscia, la pelle nera del mare:
sotto fa uno sciacquio, un glagla
e poi un sommesso ploplop
un quieto sciabordìo
che sembra ridere appena.

[Tutto il resto tace nel porto]

Tiràti su per l’amo, con arte
salgono lenti i saraghi alla morte
danzano chiari, rassegnati, nel fondo
ché antica è l’arte, senza scopo
la danza, di esasperata lentezza.

[Non fa freddo]

Intanto Lei aspetta, tranquilla
e luccica beffarda nel secchio:
occhi di vetro restan fissi sul cielo
le pinne aperte come inutili ali,
sussultano, prima di arrendersi.

[Però, che strano]

Sembra far la civetta, stanotte
l’acqua di mare con la chiglia
del gozzo.

[Nella foschia si sono perse le stelle]

Prologo e aborto di una biografia non autorizzata

Foto di Genny Casella
Foto di Peppe Del Rossi

“Maruzzella T nacque un 23 novembre di tanti anni fa a Largo del Rosso. E, come la maggioranza dei neonati di quell’epoca, nacque di parto naturale. Tutti i bambini nascerebbero ancora come lei, se oggi si potesse nascere di parto naturale.

Era un fatto normale, a quel tempo, nascere di notte. E tutti i giorni della settimana erano buoni, e tutte le ore della notte. Mentre oggi è naturale che i bambini nascano di lunedì mattina, verso le dieci e un quarto, quando il ginecologo che deve praticare il taglio cesareo torna in ospedale o in clinica dopo il week-end.
Maruzzella T, dunque, nacque a mezzanotte e dieci, di sabato.
Fin qui nulla di rilevante, penserete voi. In ogni caso, nulla che giustifichi la redazione di una biografia, che di solito viene scritta per autori di ben più chiara fama. In quanto sua biografa ufficiale, io però non ho alcuna esitazione nel sostenere che vi sbagliate di grosso!
Secondo il racconto della Madre, infatti, dopo la sua nascita “s’arrevutatte ‘u vóico!”, nel senso che ci fu una piccola rivolta della popolazione di Largo del Rosso, paragonabile a quella che si era verificata quasi venti secoli prima, in quel di Betlemme.
A parte la differente condizione dell’essere femmina invece che maschio, dell’essere la settima di otto figli invece che primogenito e unigenito figlio di Dio e dell’essere figlia naturale di un pescatore invece che figlio putativo di un falegname, tutto il resto era infatti terribilmente somigliante.

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Zi’ ‘Ngiulina

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Zi’ ‘Ngiulina è la donna che tiene il nipotino in braccio.  (foto gentilmente concessa  da Ignazio)

Lo spauracchio dei bambini del vicolo era zi’ ‘Ngiulina, una delle figlie della nonna Sarachèlla nonché sorella prediletta di suo padre. Che era tanto Sarachèlla da sembrare una donna terribile, e che tutti sembravano temere. Da grande Maruzzella avrebbe rivisto il proprio giudizio su quella zia, ma all’epoca dei fatti narrati ne aveva terrore.
A quel tempo il vicolo era pieno di bande di scugnizzi vocianti, che ne combinavano di tutti i colori e avevano sempre qualcosa da fare.
Zi’ ‘Ngiulina era il loro incubo, e viceversa.

Dopo un pranzo consumato frettolosamente in stanze buie ed affollate, gli scugnizzi di Largo del Rosso sciamavano giù dalle scalinatelle o fuori dai bassi come api in cerca di fiori. E i fiori erano i basoli del vicolo, erano i muri di tufo giallo dei palazzi, che insegnavano ai ragazzi mille giochi.
Veniva la stagione delle nocelle, e allora i maschi giocavano a fare castelli di nocciole da distruggere poi con tiri rapidi e precisi usando ‘u pallone che ogni ragazzo possedeva: una nocciola scelta tra quelle più grandi, che ognuno provvedeva a rendere più pesante, facendo colare dentro il guscio, attraverso un foro praticato ad arte, del piombo fuso.

Veniva il tempo del singo, e allora c’era un posto, in un angolo della corte, dove i basoli formavano una specie di griglia numerica naturale, i bordi della quale erano gli interstizi di calce tra una pietra e l’altra. Ogni bambina sapeva quale basolo era il numero cinque, quale il numero tre, quali erano il basolo di partenza e quello di arrivo, senza bisogno di usare il gesso.
Maruzzella, che a causa dei postumi della paralisi non riusciva a saltellare su un solo piede, su quel singo di pietra grigia ci camminava soltanto, stando bene attenta a non finire sugli interstizi tra un basolo e l’altro, ché altrimenti avrebbe dovuto lasciare il posto alla sorellina, o ad Annuccella, la loro cugina.
Le altre bambine non le facevano pesare quella sua incapacità di saltare, poiché era tacitamente convenuto che lei partecipasse al gioco secondo le sue possibilità, e nessuna aveva mai messo in discussione questo patto mai formulato a parole.

Veniva pure il tempo delle piogge improvvise, le buriane, e allora in certi punti del vicolo si formavano delle grandi pozzanghere, i lavaruni, dove gli scalmanati bambini si divertivano a sguazzare, o dove facevano navigare barchette di carta o pezzi di legno cui si aggiungeva un’elica, azionata da un elastico.

Veniva l’estate, e i ragazzi cuocevano patate sotto la cenere, nei giorni in cui le donne facevano le conserve di pomodoro; oppure andavano a fare il bagno alla spiaggia della Sirena; oppure, quando il fresco della sera dava un po’ di sollievo, organizzavano le cucinelle, una specie di pic-nic d’altri tempi. Ognuno portava qualcosa da mangiare e si distribuiva quello che si aveva, o si cucinavano gli spaghetti aglio e olio e si mangiava tutti insieme, apparecchiando tavoli improvvisati al centro del vicolo.

Gli adulti stavano a guardare, talvolta sbraitando, ma più spesso sorridendo a causa del vocìo dei ragazzi e delle loro baruffe chiassose. Tutti, comunque, osservavano gli scugnizzi del vicolo con lo sguardo protettivo e paziente che hanno le leonesse quando sorvegliano i cuccioli del branco. Tutti, tranne zi’ ‘Ngiulina.

Che piovesse o splendesse il sole, che fosse Natale o Ferragosto, zì ‘Ngiulina era là, con la sua lunga pertica che in realtà era una sottile canna di bambù, a minacciare i bambini che “shhhh!!!…zitti!!” minacciavano il sonno leggero di zì Giulianiello. Il quale era suo marito e, sfortunatamente – solo per il fatto di avere disturbi del sonno, non per altro – pure lo zio di Maruzzella, Angelina e Annuccella.

Cosa può essere mai la Poesia?

Un ponte, ma anche l’esplosivo che i ponti fa saltare.
Un muro, una barriera, una porta sbattuta in faccia, un nodo che non si scioglie.
Un gioco, un salvagente, una mano tesa, un sorriso – la terapia contro il dolore di vivere.
Lo sguardo che ci tiene insieme – noi così diversi, così distanti, così sconosciuti gli uni gli altri, così soli.
Un suono che ci riconduce a casa, che ci fa armonia; la dissonanza in cui ci specchiamo, che ci spiazza.
Ciò che di noi rifiutiamo, da cui ci siamo allontanati o in cui ci tuffiamo per riconoscerci. Riemergendone bagnati di nuova consapevolezza.
Una via, il viaggio, una coperta sempre troppo corta e, insieme, la scoperta che immaginiamo debba salvare il mondo.
Un cataclisma, una furia devastatrice, oppure una pausa di luce tra la devastazione in atto e quella prossima a venire.
Un amore a cui siamo rimasti fedeli per l’intera vita, l’unico che sia rimasto sempre ad attenderci – anche mentre eravamo vivi, e ciechi e sordi e muti – e l’unico sempre disposto a riaccoglierci senza chiedere spiegazioni.

E quando la cerchi si fa sempre trovare. Come qui, tra le pagine di un libro:

<<“Con permesso, don Federico, un momento solo!” esclamò Vincenzino Aurispa, quasi toccando con le sue nere dita le labbra del vecchio bidello. “Vi giuro che questo trucco mi fa dannare! Spiegatemi un poco: don Giove c’era o non c’era nella nuvola?” “Era Giove l’intera nuvola! Era fumo, era vapore dalla testa ai piedi!”
” E scese raso terra? O con un forte vento sollevò Io, cioè lei, fino a lui? Come si regolarono, parliamoci francamente, per stare cuore a cuore tutti e due?
“Non si sa, è poesia.”
“Son indeciso se credervi o no, don Federico. Giove non si poteva travestire in qualche altro modo? Riusciva lo stesso nell’intento, anzi meglio, se diventava una mosca, o una pulce.”
“Non sarebbe stata poesia.”
“Caro don Federico, ma allora che imbroglio è, la poesia? Qualunque esagerazione, qualunque errore voi dite ‘poesia’ come si dice ‘indumenti’ alla dogana, e passate senza aprire la valigia?”
“Esattamente. La poesia è una fiducia completa, impossibile a descrivere. Se una poesia ti chiama ladro o becco tu rispondi: ‘Sissignore, servo vostro’ e rimani contemporaneamente disperato e felice. Intendiamoci bene, con la poesia non si ragiona; la poesia è il settebello di ogni fatto avvenuto, di ogni pensiero pensato e di ogni vivo vivente … avete capito?”
“No, ma pazienza” sospirò don Alfredo Tescione. “Si vede che la poesia è un mistero.”>>

(da:”Gli alunni del sole”*, Giuseppe Marotta, ed. BUR Rizzoli)

*Una sorta di mitologia greca rivisitata con spirito tipicamente napoletano e raccontata a puntate da un ex bidello ai ‘pezzenti’ suoi amici, tutti accomunati dalla curiosità di conoscere amori, imbrogli, tradimenti e battaglie degli antichi dèi, nei quali rivivono le proprie umane vicende. Napoli che diventa regno della fantasia e del ‘favoloso’, descritta in pagine memorabili. Vi consiglio di leggerlo.

Gli scugnizzi di Largo del Rosso

Foto di Vincenzo Conte o Settimio Gallinaro, periodo di Carnevale, primi anni sessanta.
Foto di Vincenzo Conte o di Settimio Gallinaro, periodo di Carnevale, primi anni ’60.

Zufenella, diminutivo e storpiatura di Sofia, era la donna anziana che in questa foto è ritratta con la nipotina in braccio. Per  me resta la donna che ogni anno, nell’ultimo martedì prima del periodo di Quaresima, organizzava uno spassoso funerale, con gran divertimento mio e dei bambini del vicolo. Dopo aver costruito un fantoccio riempiendo di trucioli di legno la tuta di lavoro di qualche operaio o artigiano, lo adagiava supino su una carretta e lo portava in corteo per tutto il quartiere gridando a gran voce: “E’ muorto Carnevale!”, seguita da un codazzo di scugnizzi schiamazzanti. Al termine della processione adagiava il fantoccio sui basoli e gli dava fuoco, mentre tutti i partecipanti al funerale, disposti in cerchio intorno al fucarazzo, fingevano di piangere, di stracciarsi i capelli e le vesti. Tra un urlo di dolore e un finto pianto ci scappavano sempre molte  grasse risate. A me Zufunella piaceva tantissimo, anche se per tutto il resto dell’anno non ci avevo a che fare, e mai avrei immaginato che non fosse felice.  Ma un giorno seppi, ascoltando le mezze parole dette sottovoce da mia madre e dalle sue amiche, che era morta. Non di morte naturale, come sarebbe stato normale a giudicare dalla sua indole apparentemente gioviale. No: le donne dicevano che aveva bevuto qualcosa, non ricordo più se liscivia o che altro, e che si era avvelenata. Mettendo fine alla propria vita mise termine pure alla tradizione del funerale di Carnevale, portando con sé un sacco di storie che avrebbero forse meritato di essere scritte.

Alieni

E’ un venerdì di aprile del 2013, una sera finalmente tiepida dopo settimane di pioggia e freddo.

Sto  affacciata alla ringhiera di un terrazzino che guarda su Largo Emporio.

Un tempo doveva essere il balcone di una casa;  adesso dà luce ad una delle salette al primo piano di un ristorantino in cui sono stata invitata a festeggiare le nozze d’argento di una coppia di amici: un localino che propone una cucina basata su piatti di pesce a basso costo e che pratica tariffe adatte alle tasche di un’impoverita classe media e a palati poco schizzinosi.

Questo è solo uno dei tanti ristorantini del centro, che si susseguono nei vicoli della Pozzuoli vecchia occupando quelli che furono bassi, botteghe, malazè, quartini di pescatori,  artigiani e piccoli commercianti che un tempo vivevano in questi luoghi.

Largo Emporio, a quei tempi, era lo spazio all’aperto adibito a mercato del pesce del Comune di Pozzuoli.

Di mattina era uno spettacolo di vita, di suoni e di colore fatto di ombrelloni,  di tinozze di legno tinto di bianco e azzurro,di spruzzi e secchiate di acqua di mare del porto;    un concerto di voci sgraziate, di trattative rituali, di grida, di inviti, di richiami di venditori: “ ‘Alóice! Accattàteve ‘alóice!! ’I bbotte ‘nciélo, ‘i  sbatte ’ntèrra e songhe sèmpe scintillante!”

Dopo il mercato,  specie d’estate, dal selciato si sprigionava un fetore nauseabondo: un misto di legno fradicio e nafta, di pesce fetente, di salmastro, di ruggine e di urina che evaporava in miasmi insopportabili, quando il sole picchiava sui basoli  e sullo spiazzo lasciato deserto.

In questa parte del paese,  tra i vicoli affacciati su Largo Emporio e il Canalone, ci abitavano tre delle mie compagne dell’Istituto Magistrale, nelle cui case ho trascorso interi pomeriggi durante gli anni dell’adolescenza a partire dai primi anni Settanta, nel periodo immediatamente successivo alla prima crisi bradisismica,culminata con lo sgombero del Rione Terra e lo spopolamento –  quella volta solo temporaneo –  dell’intera città bassa.

Al rientro da Qualiano, dopo alcuni mesi di allontanamento dal paese e da Largo del Rosso, avevo circa dodici anni. Con la riapertura delle scuole  cominciai a riprendere confidenza col “mondo”oltre Largo del Rosso e la contrada di “Rint’â Torre”,  in cui la mia famiglia era radicata ed in cui poi ho abitato fino al 4 settembre del 1983, il giorno della prima forte scossa di terremoto dovuta alla seconda  crisi bradisismica,  che trasformò per anni tutta la Pozzuoli bassa in una città fantasma.

Lina,  Rosaria, Margherita.

Delle mie tre compagne di scuola di un tempo, soltanto Rosaria abita ancora nel centro storico: “Rint’ â Torre”, vicino alla chiesa di San Marco.

Lina si è trasferita da Largo Emporio a Bacoli;  Margherita da Vico Caldaie al Rione Solfatara.

Io abitavo a  Largo del Rosso, vicino al Tempio di Serapide. Nel tempo di prima attraversavo Via Roma e andavo a fare il bagno alla spiaggia della Sirena.  Da lì sono finita a Monterusciello.

Nella stradina che si è creata tra la fila di palazzi e quella dei gazebo allineati di fronte al parcheggio, vedo transitare i ragazzi che agiteranno la movida notturna tracannando cicchetti serviti al modico prezzo di un euro, e i clienti che invece possono permettersi una cenetta a base di piatti di pesce e che hanno già prenotato un tavolo da “Bobò” o dal “Tarantino”.

Pochi, in questo tempo di crisi.

Il terrazzino a cui sono affacciata sta proprio sopra uno dei  ristoranti che ancora si ostinano a fare cucina di qualità e preparano piatti  col pescato selvatico procurato dalle barche superstiti di quella che fu la marineria di pesca puteolana.  Che pagano cara  la materia prima e che poi praticano prezzi alti per buone ragioni. Ma che forse proprio per questo sono destinati a soccombere ai take away e ai fast&cheap food.

 

Mentre sono affacciata vedo arrivare, dall’ ingresso della stradina che dà sul mare,  uno che riconosco, uno di Abbasci’ û Mare.  Magro, coi capelli sale e pepe, da tutti chiamato Ciacione.

E’ amico di mio cognato e conosce bene i miei fratelli, ma di lui so nulla o quasi, a parte il nome, o meglio, ‘u contranomme che ha sostituito il suo nome anagrafico.

Avanza guardingo nella stradina, tenendo sotto braccio un cassettino di pesci appena pescati tra cui spiccano  grossi cocci e scorfani  ancora vivi.  

Si ferma proprio sotto al terrazzino su cui sono io, e contratta sottovoce  col ristoratore per  venderglieli.  Alla fine glieli lascia, e l’uomo li sistema su un letto di ghiaccio dove i pesci cominciano a contorcersi.

Mentre Ciacione si allontana, mi pare che alla sua sagoma snella si sovrapponga quella di mio padre, coi suoi stivali di gomma verdognola in cui erano infilati i pantaloni di tela,  ‘u curpèttö di cotone pesante a maniche lunghe e il basco di feltro blu sulla testa mezza pelata.

Cammina tranquillo tra la folla del venerdì sera, pare invisibile tanto è ignorato dagli altri passanti, poi svanisce nel buio senza lasciare traccia di sé, quasi fosse un alieno capitato per sbaglio in un mondo lontano anni luce dal suo pianeta di origine.  Alieno,  come Ciacione.

Un tempo questo era il ‘loro’ quartiere, abitato da gente semplice come loro, che parlava la loro stessa lingua,  che conosceva ogni angolo di questo mare e che sapeva indicarne i posti usando gli stessi toponimi. Che se un altro pescatore, sciogliangiarre e solitario che fosse o tartarunàro  e di compagnia come quelli delle lamparelle,  gli avesse detto che aveva pescato  ’Rint’a Badessa, o ‘Ncopp’ ’i Mmèrle, o A luànte î tubbe,  ‘Nt’’u vasciéllo, o ‘Nt’ a Chiaia ’i Cumma,  loro sapevano esattamente dov’era quel posto, e gli altri pure, ma  nessuno che non fosse un pescatore avrebbe capito di che stavano parlando.

Ciacione. Potrebbe essere la storpiatura del suo vero nome,  o di chissà quale epiteto affettuoso con cui  lo si chiamava da bambino.  O forse, da adulto, gliel’avranno affibbiato  i compagni di pesca, come era accaduto a mio padre.  Da “Vincenzo”, che in puteolano  era Viciénzo, era poi diventato in bocca a sua madre e a sua moglie soltanto Scarrupiéllo  (“Scarrupié!”),  e in bocca agli altri pescatori soltanto Caparagliéllo,  in quanto figlio di Capa r’aglio, mio nonno.

Quale sia il vero nome di Ciacione lo ignoro. Il suo contranomme  ha però il suono dell’acqua agitata con le mani, il suono che fa il corpo di qualcuno che nell’ acqua ci è nato e che per questo ci sguazza: uno ca se ciacéjia, per l’appunto.

Mentre lo guardo allontanarsi e svanire,  mi punge in gola a sorpresa un doloroso pensiero: “E’ diventato uno straniero in casa sua senza nemmeno accorgersene …”.

E’ il  sopravvissuto di un mondo scomparso.  Come lo siamo noi,  esuli a Monterusciello o al Rione Toiano.  Come forse lo erano già mio padre e i suoi compagni di pesca a loro insaputa fin dal tempo di prima. Prima dell’esodo.

Prima che Pozzuoli fosse sventrata.  Prima che fosse esposta al mondo come un coccio o uno scorfano dai colori smaglianti del pesce appena pescato, con l’occhio che pare vivo, come quelli rimasti a fare bella mostra di sé, irrimediabilmente morti,  sul letto di ghiaccio del banchetto di Bobò.

Sinfonia della Terra

LUX in FABULA – RIONE TERRA 1968 – “Sinfonia della Terra” di Lorenzo Lamagna; “A Serenata d’ ‘o marenar” di Aniello Califano – Salvatore Gambardella, 1903; “Se po sunà” di Gianni Lamagna – Musiche eseguite da Lorenzo Lamagna (clarinetto) Gianni Lamagna (chitarra) Giosi Cincotti (fisarmonica) Arcangelo Michele Caso (basso). Riprese sonore Arcangelo Michele Caso.

La prima volta che sono ‘salita’ al Rione Terra, nei primi anni ’70 del Novecento, la rocca era già disabitata, ma ancora accessibile.  Ho attraversato i vicoli deserti insieme alle mie compagne di scuola e qualcuno, dall’alto di un balcone pieno di sterpaglie, ci ha lanciato addosso un porta-sapone di metallo, col chiaro intento di mandarci via. Eravamo un gruppo di ragazzine e siamo scappate. La seconda volta tutti gli accessi al Rione erano sbarrati, ed era il 1984. Lo so perché la vista di un muro che impediva l’accesso al Sedile di Porta, l’ingresso principale al Rione Terra, mi spinse a scrivere questi ‘versi’.

Rione Terra

Un giorno quasi per caso
percorro una strada in salita
E in cima trovo un muro
di cemento armato
una barriera insormontabile
che preclude l’accesso

(A cosa mai servivano tutti quegli uncini
quei cocci di bottiglia lassù in alto
se non a separare la mia gente
dal gusto antico delle sue radici?)

Nel muro
ben serrata
una porta di ferro

Oltre il muro tutto un mondo vuoto
ormai privo di voce
occhi neri di finestre spalancate
come spettrali bocche stupite
e balconi infestati di erbacce
orfani di danze di panni stesi

E’ in scena il silenzio spettrale
di un palcoscenico deserto
Brandelli di tende al vento
desolato sipario

(Giaceva dimenticata
chissà in quale tasca
in quale testa smemorata
una chiave)
(1984)

N.d.A.
Il Rione Terra era il cuore antico della mia Pozzuoli. Fino al marzo del 1970 pulsava di vita, poi fu evacuato e recintato, dopo una crisi di bradisismo che fece sollevare il suolo del mio paese di circa due metri. Da oltre trent’anni aspetta di essere restituito alla memoria dei Puteolani, che nel frattempo sembrano averne dimenticato l’esistenza. I lavori di restauro, iniziati da molto tempo e non ancora conclusi, hanno portato alla luce un patrimonio archeologico di valore inestimabile, sepolto da duemila anni sotto il dedalo di vicoli e di palazzi che vi sono stati costruiti sopra. Sono stati individuati e resi visibili i tracciati delle strade, i resti delle case e delle taberne, persino le macine e i forni che fornivano la farina e il pane agli abitanti della Puteoli di epoca romana. In un futuro ormai prossimo, almeno si spera, il Rione Terra sarà aperto interamente al pubblico. Già adesso, in determinati periodi dell’anno vi giungono visitatori provenienti da ogni parte del mondo e alcuni palazzi vengono utilizzati in occasione di eventi culturali quali mostre, convegni e spettacoli. E’ da escludere un rientro della popolazione nei palazzi restaurati, che diventeranno uffici del Comune, sedi di associazioni culturali, locali per mostre ed eventi culturali.
Se volete saperne di più, e magari organizzare una vacanza che includa un tour nei Campi Flegrei e una visita a Pozzuoli, potete documentarvi utilizzando un qualsiasi motore di ricerca. Scoprirete che nella mia terra vi sono vulcani, solfatare, acque termali, monumenti archeologici di eccezionale importanza come l’anfiteatro Flavio e il Tempio di Serapide, e anche la nuova Pompei della Campania, sotto il Rione Terra.

(2003)