
“Maruzzella T nacque un 23 novembre di tanti anni fa a Largo del Rosso. E, come la maggioranza dei neonati di quell’epoca, nacque di parto naturale. Tutti i bambini nascerebbero ancora come lei, se oggi si potesse nascere di parto naturale.
“Maruzzella T nacque un 23 novembre di tanti anni fa a Largo del Rosso. E, come la maggioranza dei neonati di quell’epoca, nacque di parto naturale. Tutti i bambini nascerebbero ancora come lei, se oggi si potesse nascere di parto naturale.
Dopo un pranzo consumato frettolosamente in stanze buie ed affollate, gli scugnizzi di Largo del Rosso sciamavano giù dalle scalinatelle o fuori dai bassi come api in cerca di fiori. E i fiori erano i basoli del vicolo, erano i muri di tufo giallo dei palazzi, che insegnavano ai ragazzi mille giochi.
Veniva la stagione delle nocelle, e allora i maschi giocavano a fare castelli di nocciole da distruggere poi con tiri rapidi e precisi usando ‘u pallone che ogni ragazzo possedeva: una nocciola scelta tra quelle più grandi, che ognuno provvedeva a rendere più pesante, facendo colare dentro il guscio, attraverso un foro praticato ad arte, del piombo fuso.
Veniva il tempo del singo, e allora c’era un posto, in un angolo della corte, dove i basoli formavano una specie di griglia numerica naturale, i bordi della quale erano gli interstizi di calce tra una pietra e l’altra. Ogni bambina sapeva quale basolo era il numero cinque, quale il numero tre, quali erano il basolo di partenza e quello di arrivo, senza bisogno di usare il gesso.
Maruzzella, che a causa dei postumi della paralisi non riusciva a saltellare su un solo piede, su quel singo di pietra grigia ci camminava soltanto, stando bene attenta a non finire sugli interstizi tra un basolo e l’altro, ché altrimenti avrebbe dovuto lasciare il posto alla sorellina, o ad Annuccella, la loro cugina.
Le altre bambine non le facevano pesare quella sua incapacità di saltare, poiché era tacitamente convenuto che lei partecipasse al gioco secondo le sue possibilità, e nessuna aveva mai messo in discussione questo patto mai formulato a parole.
Veniva pure il tempo delle piogge improvvise, le buriane, e allora in certi punti del vicolo si formavano delle grandi pozzanghere, i lavaruni, dove gli scalmanati bambini si divertivano a sguazzare, o dove facevano navigare barchette di carta o pezzi di legno cui si aggiungeva un’elica, azionata da un elastico.
Veniva l’estate, e i ragazzi cuocevano patate sotto la cenere, nei giorni in cui le donne facevano le conserve di pomodoro; oppure andavano a fare il bagno alla spiaggia della Sirena; oppure, quando il fresco della sera dava un po’ di sollievo, organizzavano le cucinelle, una specie di pic-nic d’altri tempi. Ognuno portava qualcosa da mangiare e si distribuiva quello che si aveva, o si cucinavano gli spaghetti aglio e olio e si mangiava tutti insieme, apparecchiando tavoli improvvisati al centro del vicolo.
Gli adulti stavano a guardare, talvolta sbraitando, ma più spesso sorridendo a causa del vocìo dei ragazzi e delle loro baruffe chiassose. Tutti, comunque, osservavano gli scugnizzi del vicolo con lo sguardo protettivo e paziente che hanno le leonesse quando sorvegliano i cuccioli del branco. Tutti, tranne zi’ ‘Ngiulina.
Che piovesse o splendesse il sole, che fosse Natale o Ferragosto, zì ‘Ngiulina era là, con la sua lunga pertica che in realtà era una sottile canna di bambù, a minacciare i bambini che “shhhh!!!…zitti!!” minacciavano il sonno leggero di zì Giulianiello. Il quale era suo marito e, sfortunatamente – solo per il fatto di avere disturbi del sonno, non per altro – pure lo zio di Maruzzella, Angelina e Annuccella.
Zufenella, diminutivo e storpiatura di Sofia, era la donna anziana che in questa foto è ritratta con la nipotina in braccio. Per me resta la donna che ogni anno, nell’ultimo martedì prima del periodo di Quaresima, organizzava uno spassoso funerale, con gran divertimento mio e dei bambini del vicolo. Dopo aver costruito un fantoccio riempiendo di trucioli di legno la tuta di lavoro di qualche operaio o artigiano, lo adagiava supino su una carretta e lo portava in corteo per tutto il quartiere gridando a gran voce: “E’ muorto Carnevale!”, seguita da un codazzo di scugnizzi schiamazzanti. Al termine della processione adagiava il fantoccio sui basoli e gli dava fuoco, mentre tutti i partecipanti al funerale, disposti in cerchio intorno al fucarazzo, fingevano di piangere, di stracciarsi i capelli e le vesti. Tra un urlo di dolore e un finto pianto ci scappavano sempre molte grasse risate. A me Zufunella piaceva tantissimo, anche se per tutto il resto dell’anno non ci avevo a che fare, e mai avrei immaginato che non fosse felice. Ma un giorno seppi, ascoltando le mezze parole dette sottovoce da mia madre e dalle sue amiche, che era morta. Non di morte naturale, come sarebbe stato normale a giudicare dalla sua indole apparentemente gioviale. No: le donne dicevano che aveva bevuto qualcosa, non ricordo più se liscivia o che altro, e che si era avvelenata. Mettendo fine alla propria vita mise termine pure alla tradizione del funerale di Carnevale, portando con sé un sacco di storie che avrebbero forse meritato di essere scritte.
Sono nata una notte in un posto incantato, un posto dove il tempo era fermo e la magia si tagliava a fette.
Si chiamava, e si chiama tuttora, Largo del Rosso.
Era un luogo pieno di bambini, di giochi, di vecchi che raccontavano storie; era un mondo pieno di gente che parlava. Era un vicolo a forma di cortile, il cui ingresso era nascosto a quelli che non avevano occhi per vedere, ed era come una grande casa per tutti quelli che l’abitavano.
È lì che ho imparato la poesia, perché la respiravo. Era nelle voci delle donne che intrecciavano cunti* e nenie mentre insieme preparavano conserve; era nelle voci dei bambini, che giocando si tramandavano filastrocche e conte; era nelle voci dei venditori ambulanti, che lanciavano i loro richiami; era nella musicalità araba del dialetto che parlavo e che ascoltavo, ricco di parole per dire ogni cosa.
Era nell’aria, nel profumo dei glicini a marzo, nel tubare tranquillo dei colombi, nelle stelle della cintura di Orione (“Quanno accumparene i tre fratielle, allestiteve i capputtielle!”**) che annunciavano la fine dell’estate; era nei riti che si ripetevano uguali, segnando il cambio delle stagioni.
Era nei colori, nelle forme che assumevano le cose, era il ritmo che mi formava e che mi nutriva di sé. Da lì sono partita, ed è lì che torno, quando la Poesia mi scorre dentro.
Note
* racconti
**”Quando compaiono in cielo “i tre fratelli” (le stelle della cintura di Orione) preparate i cappotti!”
ne güzel blues ne güzel karanlık
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