Si scrive di quel che si perde

Ripropongo questa poesia scritta nel 2004. La foto in bianco e nero ritrae mio padre e mio fratello Leonardo ed è stata scattata tanti anni fa da Giulio Gentile, una sera che i due si imbarcavano per andare a pesca. La banchina era molto alta sul mare a causa del bradisismo, e imbarcarsi richiedeva buone capacità acrobatiche. Mio padre aveva superato i settant’anni, all’epoca, e avrebbe smesso di fare il mestiere dopo poco tempo…

Largo del Rosso

Si scrive di quel che si perde
di quel che non si è mai avuto
– due braccia forti e un tango –
di ciò che non si è pescato

di maglie da cucire sotto il sole
e della rete di una vita intera, bianca
tinta di ruggine. Si scrive delle squame
del sale che si asciuga sui calzoni
degli stivali in gomma nella melma
e delle notti cupe sopra il mare

quando si aspetta l’alba. Quando si va
per porti e per mercati, dentro la nebbia.

(16 marzo 2004)

View original post

Litania puteolana

Stóncö stancä*

m’abbruciä nu ciancö
më cioncö e më stèngö
chiù fammä nu’ ttèngö.
Mo ‘a vèstë j’ ‘appèngö
‘a fruttä ‘nt’ ‘a räóngö
â festä nu’ bbèngö
më vac’ a cuccà

chiù nu’ mmë ‘ncuità!

——

*stanca: licenza poetica. nel mio dialetto direi ” Stónc’ accésä ”

Traduz. Sono stanca/ mi brucia un fianco/mi paralizzo e mi stendo/non ho più fame./Ora appendo la veste/ non ti do la frutta/ non vengo alla festa/vado a coricarmi/ più non mi seccare!

Poesia da poltrona

Ezra Pound era di poco più giovane di mia nonna Teresina
ma è morto molti anni prima di lei. Mia nonna non si è mai mossa
da Largo del Rosso, a parte la volta che si è rifugiata a Qualiano
per sfuggire al vulcano che si diceva sarebbe sorto
nel porto. Ezra Pound invece è morto dopo aver viaggiato
a più non posso, ma senza aver mai visto mia nonna,
Qualiano e Largo del Rosso. Viaggiare, per paradosso
a Pound ha abbreviato la vita e negato una conoscenza.
Mia nonna non l’ha saputo. In entrambi i casi l’ignoranza
è stato il classico dono della Provvidenza, suppongo.

Gli scugnizzi di Largo del Rosso

Foto di Vincenzo Conte o Settimio Gallinaro, periodo di Carnevale, primi anni sessanta.
Foto di Vincenzo Conte o di Settimio Gallinaro, periodo di Carnevale, primi anni ’60.

Zufenella, diminutivo e storpiatura di Sofia, era la donna anziana che in questa foto è ritratta con la nipotina in braccio. Per  me resta la donna che ogni anno, nell’ultimo martedì prima del periodo di Quaresima, organizzava uno spassoso funerale, con gran divertimento mio e dei bambini del vicolo. Dopo aver costruito un fantoccio riempiendo di trucioli di legno la tuta di lavoro di qualche operaio o artigiano, lo adagiava supino su una carretta e lo portava in corteo per tutto il quartiere gridando a gran voce: “E’ muorto Carnevale!”, seguita da un codazzo di scugnizzi schiamazzanti. Al termine della processione adagiava il fantoccio sui basoli e gli dava fuoco, mentre tutti i partecipanti al funerale, disposti in cerchio intorno al fucarazzo, fingevano di piangere, di stracciarsi i capelli e le vesti. Tra un urlo di dolore e un finto pianto ci scappavano sempre molte  grasse risate. A me Zufunella piaceva tantissimo, anche se per tutto il resto dell’anno non ci avevo a che fare, e mai avrei immaginato che non fosse felice.  Ma un giorno seppi, ascoltando le mezze parole dette sottovoce da mia madre e dalle sue amiche, che era morta. Non di morte naturale, come sarebbe stato normale a giudicare dalla sua indole apparentemente gioviale. No: le donne dicevano che aveva bevuto qualcosa, non ricordo più se liscivia o che altro, e che si era avvelenata. Mettendo fine alla propria vita mise termine pure alla tradizione del funerale di Carnevale, portando con sé un sacco di storie che avrebbero forse meritato di essere scritte.

Alieni

E’ un venerdì di aprile del 2013, una sera finalmente tiepida dopo settimane di pioggia e freddo.

Sto  affacciata alla ringhiera di un terrazzino che guarda su Largo Emporio.

Un tempo doveva essere il balcone di una casa;  adesso dà luce ad una delle salette al primo piano di un ristorantino in cui sono stata invitata a festeggiare le nozze d’argento di una coppia di amici: un localino che propone una cucina basata su piatti di pesce a basso costo e che pratica tariffe adatte alle tasche di un’impoverita classe media e a palati poco schizzinosi.

Questo è solo uno dei tanti ristorantini del centro, che si susseguono nei vicoli della Pozzuoli vecchia occupando quelli che furono bassi, botteghe, malazè, quartini di pescatori,  artigiani e piccoli commercianti che un tempo vivevano in questi luoghi.

Largo Emporio, a quei tempi, era lo spazio all’aperto adibito a mercato del pesce del Comune di Pozzuoli.

Di mattina era uno spettacolo di vita, di suoni e di colore fatto di ombrelloni,  di tinozze di legno tinto di bianco e azzurro,di spruzzi e secchiate di acqua di mare del porto;    un concerto di voci sgraziate, di trattative rituali, di grida, di inviti, di richiami di venditori: “ ‘Alóice! Accattàteve ‘alóice!! ’I bbotte ‘nciélo, ‘i  sbatte ’ntèrra e songhe sèmpe scintillante!”

Dopo il mercato,  specie d’estate, dal selciato si sprigionava un fetore nauseabondo: un misto di legno fradicio e nafta, di pesce fetente, di salmastro, di ruggine e di urina che evaporava in miasmi insopportabili, quando il sole picchiava sui basoli  e sullo spiazzo lasciato deserto.

In questa parte del paese,  tra i vicoli affacciati su Largo Emporio e il Canalone, ci abitavano tre delle mie compagne dell’Istituto Magistrale, nelle cui case ho trascorso interi pomeriggi durante gli anni dell’adolescenza a partire dai primi anni Settanta, nel periodo immediatamente successivo alla prima crisi bradisismica,culminata con lo sgombero del Rione Terra e lo spopolamento –  quella volta solo temporaneo –  dell’intera città bassa.

Al rientro da Qualiano, dopo alcuni mesi di allontanamento dal paese e da Largo del Rosso, avevo circa dodici anni. Con la riapertura delle scuole  cominciai a riprendere confidenza col “mondo”oltre Largo del Rosso e la contrada di “Rint’â Torre”,  in cui la mia famiglia era radicata ed in cui poi ho abitato fino al 4 settembre del 1983, il giorno della prima forte scossa di terremoto dovuta alla seconda  crisi bradisismica,  che trasformò per anni tutta la Pozzuoli bassa in una città fantasma.

Lina,  Rosaria, Margherita.

Delle mie tre compagne di scuola di un tempo, soltanto Rosaria abita ancora nel centro storico: “Rint’ â Torre”, vicino alla chiesa di San Marco.

Lina si è trasferita da Largo Emporio a Bacoli;  Margherita da Vico Caldaie al Rione Solfatara.

Io abitavo a  Largo del Rosso, vicino al Tempio di Serapide. Nel tempo di prima attraversavo Via Roma e andavo a fare il bagno alla spiaggia della Sirena.  Da lì sono finita a Monterusciello.

Nella stradina che si è creata tra la fila di palazzi e quella dei gazebo allineati di fronte al parcheggio, vedo transitare i ragazzi che agiteranno la movida notturna tracannando cicchetti serviti al modico prezzo di un euro, e i clienti che invece possono permettersi una cenetta a base di piatti di pesce e che hanno già prenotato un tavolo da “Bobò” o dal “Tarantino”.

Pochi, in questo tempo di crisi.

Il terrazzino a cui sono affacciata sta proprio sopra uno dei  ristoranti che ancora si ostinano a fare cucina di qualità e preparano piatti  col pescato selvatico procurato dalle barche superstiti di quella che fu la marineria di pesca puteolana.  Che pagano cara  la materia prima e che poi praticano prezzi alti per buone ragioni. Ma che forse proprio per questo sono destinati a soccombere ai take away e ai fast&cheap food.

 

Mentre sono affacciata vedo arrivare, dall’ ingresso della stradina che dà sul mare,  uno che riconosco, uno di Abbasci’ û Mare.  Magro, coi capelli sale e pepe, da tutti chiamato Ciacione.

E’ amico di mio cognato e conosce bene i miei fratelli, ma di lui so nulla o quasi, a parte il nome, o meglio, ‘u contranomme che ha sostituito il suo nome anagrafico.

Avanza guardingo nella stradina, tenendo sotto braccio un cassettino di pesci appena pescati tra cui spiccano  grossi cocci e scorfani  ancora vivi.  

Si ferma proprio sotto al terrazzino su cui sono io, e contratta sottovoce  col ristoratore per  venderglieli.  Alla fine glieli lascia, e l’uomo li sistema su un letto di ghiaccio dove i pesci cominciano a contorcersi.

Mentre Ciacione si allontana, mi pare che alla sua sagoma snella si sovrapponga quella di mio padre, coi suoi stivali di gomma verdognola in cui erano infilati i pantaloni di tela,  ‘u curpèttö di cotone pesante a maniche lunghe e il basco di feltro blu sulla testa mezza pelata.

Cammina tranquillo tra la folla del venerdì sera, pare invisibile tanto è ignorato dagli altri passanti, poi svanisce nel buio senza lasciare traccia di sé, quasi fosse un alieno capitato per sbaglio in un mondo lontano anni luce dal suo pianeta di origine.  Alieno,  come Ciacione.

Un tempo questo era il ‘loro’ quartiere, abitato da gente semplice come loro, che parlava la loro stessa lingua,  che conosceva ogni angolo di questo mare e che sapeva indicarne i posti usando gli stessi toponimi. Che se un altro pescatore, sciogliangiarre e solitario che fosse o tartarunàro  e di compagnia come quelli delle lamparelle,  gli avesse detto che aveva pescato  ’Rint’a Badessa, o ‘Ncopp’ ’i Mmèrle, o A luànte î tubbe,  ‘Nt’’u vasciéllo, o ‘Nt’ a Chiaia ’i Cumma,  loro sapevano esattamente dov’era quel posto, e gli altri pure, ma  nessuno che non fosse un pescatore avrebbe capito di che stavano parlando.

Ciacione. Potrebbe essere la storpiatura del suo vero nome,  o di chissà quale epiteto affettuoso con cui  lo si chiamava da bambino.  O forse, da adulto, gliel’avranno affibbiato  i compagni di pesca, come era accaduto a mio padre.  Da “Vincenzo”, che in puteolano  era Viciénzo, era poi diventato in bocca a sua madre e a sua moglie soltanto Scarrupiéllo  (“Scarrupié!”),  e in bocca agli altri pescatori soltanto Caparagliéllo,  in quanto figlio di Capa r’aglio, mio nonno.

Quale sia il vero nome di Ciacione lo ignoro. Il suo contranomme  ha però il suono dell’acqua agitata con le mani, il suono che fa il corpo di qualcuno che nell’ acqua ci è nato e che per questo ci sguazza: uno ca se ciacéjia, per l’appunto.

Mentre lo guardo allontanarsi e svanire,  mi punge in gola a sorpresa un doloroso pensiero: “E’ diventato uno straniero in casa sua senza nemmeno accorgersene …”.

E’ il  sopravvissuto di un mondo scomparso.  Come lo siamo noi,  esuli a Monterusciello o al Rione Toiano.  Come forse lo erano già mio padre e i suoi compagni di pesca a loro insaputa fin dal tempo di prima. Prima dell’esodo.

Prima che Pozzuoli fosse sventrata.  Prima che fosse esposta al mondo come un coccio o uno scorfano dai colori smaglianti del pesce appena pescato, con l’occhio che pare vivo, come quelli rimasti a fare bella mostra di sé, irrimediabilmente morti,  sul letto di ghiaccio del banchetto di Bobò.

Oi mare, mare scóuro, mare nóiro

*

Zóitte, ca chille ròrmeno: zóitte!
Nun se sente cchiù niente:
a bbuorde ciuciuléja sulo ‘u muteóre …

Oi mare, mare scuro, mare nóiro
Fa’ uocchie a pàteme , ‘a saera.
Siente ,‘i ‘stu core stróitto, ‘u chianto e ‘a vaoce.
Nn’u fa stancà. Falla veni’ liggèra
chella fatica pesante ‘i marenaro;
liégge fa’ chillu passo d’omme ‘ncreoce.
Pigliate ‘u fummo ‘i tutt’i sigarrètte:
puortete chella teosse, chill’affanno
d’ ‘u pate móije.

‘I mmane, all’uocchie, ‘a varca d’oro sòja
jóinche d’argiento: vuttale ‘nchèsse, ‘i póisce
a cciénte a cciénte!

E statte quieto, nun t’arraggià cu jóisso
falle turnà ‘a ‘sta casa ambrèsse ambrèsse
Arà ca lampe e jì trèmme: trèmme
a bberé stanotte comme fragne
ll’onna ‘i Mllèno …

Zóitte, ca chille ròrmeno: zóitte!
Nun se sente cchiù nniente:
a bbuorde ciuciuléja sulo ‘u muteóre …

Pigli’ ‘u temmone tu, oi mare nóire.
E mitte ‘nterra ‘a preóra.

*

Traduzione

[Zitto, che quelli dormono: zitto!
Non si sente più nulla:
a bordo bisbiglia soltanto il motore …]

Oh mare, mare scuro, mare nero
tieni d’occhio mio padre, la sera.
Ascolta , del mio cuore stretto, il pianto e la voce.
Non stancarlo. Rendi leggera
quella fatica pesante di pescatore;
lieve rendi il suo passo d’uomo in croce.
Prenditi il fumo di tutte le sigarette:
portati quella tosse, quell’affanno
di mio padre.

Le sue mani, gli occhi, “la barca d’oro sua
riempi d’argento”: lanciali a bordo, i pesci
a cento a cento!

E resta quieto, non arrabbiarti con lui;
fallo rientrare a casa presto presto.
Il cielo è pieno di lampi e io tremo:
tremo a vedere stanotte come si frange
l’onda di Miseno.

[Zitto, che quelli dormono: zitto!
Non si sente più nulla:
a bordo bisbiglia soltanto il motore …]

Prendi il timone tu, oh mare scuro
E dirigi verso terra la prua.

Nota: << ‘A varca d’oro sòja / jóinche d’argiento>>

era contenuto in una vecchia ninna nanna che cantava mia madre e che iniziava con “ Oi ninna ninna nonna oi nunnarella / ‘u lupo se magnatte ‘a pecurella”.

Terre&Moti del cuore

Nel trentennale del 4 ottobre 1983, data in cui vi fu la scossa che provocò l’evacuazione dell’intero centro storico di Pozzuoli e lo spostamento a Monterusciello di gran parte della popolazione che vi risiedeva, a cura dell’Associazione “Terra Meridiana”, esce il libro intitolato “Terre & Moti del cuore” (Il racconto del ricordo)  ed. Valtrend

Terre & Moti del cuore

Il libro di racconti e testi poetici scaturiti da interviste concesse a scrittrici e scrittori flegrei da trentadue testimoni, puteolani e non, dei due Bradisismi che interessarono la città nel 1970 e nel 1983.

Questi testimoni, a distanza di trent’anni dall’ultima crisi bradisismica, culminata con la scossa del 4 ottobre 1983 – a seguito della quale tutta la zona costiera della città vecchia (la Pozzuoli bassa, abitata essenzialmente da pescatori, proletari, artigiani e piccoli commercianti) fu sgomberata – rivivono e raccontano i momenti più drammatici di due esodi che da molti abitanti del Rione Terra (marzo 1970), e del resto del centro storico tredici anni dopo,  fu vissuto come una vera e propria deportazione.

Gli oltre 3.000 sgomberati dal Rione Terra nel marzo del 1970 furono trasferiti, dopo alcuni anni trascorsi da ‘terremotati’ nei vari Comuni dell’hinterland  napoletano e casertano, in Contrada Toiano, ex zona agricola in cui fu costruito un mega-quartiere dormitorio destinato ad accoglierli.

Gli oltre 30.000 sgomberati della ‘zona A’ – la fascia costiera occupata dalla città bassa, che dagli esperti fu ritenuta quella a massimo rischio sismico nel 1983 –  anch’essi dispersi tra campeggi, case di villeggiatura della fascia domizia, alberghi e baraccopoli di case-container,  furono invece trasferiti dopo alcuni anni a Monterusciello, altra zona agricola collinare del territorio puteolano coltivata soprattutto a frutteto.

Quanno po’ scura notte

Quanno po’ scura notte, vène ’Ammaore
a te fa’ larghe ‘i vvaéne, stróitto ‘u core
e nun ce stanno sante, nun se fanno
scummesse cu Jóisso, si vène sguasïànno
a tte magnà’ ’i penziére.

Che bell’addore tenene ‘st ‘i mmane allaora,
e che bellu culóure, chesta faccia,
e che bell’uocchie chiuse ‘Ammore vasa,
rint’ ’a nuttata quanno
te vène ’nzuonno.

E nun fa niente si è tutto ’nu ’mbruoglio
si rire sóulo pecché è ’a sera bbona
e si ggià ’u ssajie ca po’ te lassa saola
e se ne va accussóì, comm’è bbeneuto.

Pirciò, stamme a ssentóì, nun me scetà,
si pure fusse tutta ‘na strunzata
si pure fusse sbaglio;
e famme muri’ ’i voglia stanotte,
stretta cu tte cchiù stretta ‘i ‘na cataena,
‘nzerrata a chesta voce che m’addorme,
chiano …

Voglio resta’ accussóì, cu niente ’a saotto,
cu ‘i mman’ apèrte e ’u core ca me sbatte,
pe’ tutt’ ’u tiempo ca sguasïànno vène

’Ammaore, ‘u sole móije, c’ ’a voce tòja.

 

Traduzione:

Quando poi fa notte, viene l’Amore
a farti larghe le vene, stretto il cuore
e non ci sono santi, non si fanno
scommesse con Lui, se arriva ridendo
a mangiarti i pensieri.

Che bell’odore hanno queste mani allora,
e che bel colorito questa faccia,
e che begli occhi chiusi l’ Amore bacia,
tutte le notti quando
ti viene in sogno.

E non fa niente se è tutto un imbroglio
se ride solo perché è la serata giusta
e se già sai che poi ti lascerà sola
e se ne andrà così, com’è venuto.

Perciò, da’ retta, non svegliarmi,
se pure fosse tutta una stronzata,
se pure fosse sbaglio;
e fammi morire di voglia, stanotte,
stretta più stretta a te di una catena
serrata a questa voce che mi addormenta,
piano…

Voglio restare così, con niente sotto,
con le mani aperte e il cuore che mi batte
per tutto il tempo che ridendo viene

l’Amore, il sole mio, con la tua voce.

Rifaremo ogni cosa più bella

 

 

Rifaremo ogni cosa più bella, sai?
Torneremo alle nostre macerie
E ne faremo verdi colline.
Saranno cumuli di memoria
Ma anche ombra di palme in fiore
Gorgoglìo di fontane
Scorrere d’ acqua fresca
Pura, come la pace
Che sapremo ancora sognare.

Legheremo nuovi paesaggi
Agli occhi. Ci parlerà di gioia
Un timido raggio di sole.

Ma tu, ora
Volgi lontano lo sguardo
Per favore. Lasciaci qui a morire.
Soli. Coi nostri mondi perduti.
I figli. I vicini di casa. Il tubare
Quieto dei colombi. Innamorati.
Il glicine che fioriva a primavera.
Le chiacchiere. Le notti di luglio
Sulle scale. I fuochi senza morte
Di certe sere d’agosto. Lasciaci.
Volgi lo sguardo altrove. Mentre

Piangiamo ciò che tu che non sai.